«Il suo whisky, signore».

«Grazie, Jenkins», disse Webster.

«Il pastore se n'è andato, signore», disse Jenkins.

«Oh, sì. Presumo che tu abbia provveduto a lui».

«L'ho fatto, signore. Gli ho dato la solita tariffa, e gli ho offerto da bere. Ha rifiutato».

«È stato un errore...» osservò Webster. «I preti non bevono».

«Mi spiace, signore. Non lo sapevo. Mi ha chiesto di chiederle di recarsi in chiesa, qualche volta».

«Eh?»

«Gliel'ho detto, signore, che lei non va mai da nessuna parte».

«Hai fatto bene, Jenkins», annuì Webster. «Nessuno di noi va da nessuna parte».

Jenkins si avviò verso la porta, ma si fermò prima di esservi giunto, e si voltò. «Se posso dirlo, signore, quello alla cripta è stato un servizio commovente. Suo padre era un essere umano eccellente, il migliore che vi sia mai stato. I robot hanno detto che il servizio funebre era appropriato. Pieno di dignità, signore. Gli sarebbe assai piaciuto, se l'avesse saputo».

«Mio padre», disse Webster, «sarebbe ancora più contento di sentirlo dire da te, Jenkins».

«Grazie, signore», disse Jenkins, e uscì.

Webster restò seduto col whisky, il libro e il fuoco... percepì il conforto della stanza chiusa intorno a lui, il rifugio che essa rappresentava.

Quella era la casa. Era stata la casa per i Webster sin dal giorno in cui il primo John J. era venuto lì e aveva costruito il blocco centrale dell'edificio, che poi si era esteso in ogni direzione. John J. aveva scelto quel luogo perché vi era un ruscello pieno di trote... così aveva sempre detto. Ma era qualcosa di più di questo. Doveva esserlo stato, si disse Webster.

O forse, all'inizio, era stato soprattutto il ruscello delle trote. Il ruscello delle trote, gli alberi e i prati, il crinale roccioso dove la bruma risaliva ogni mattina dal fiume. Forse, il resto era venuto poi, sviluppandosi gradualmente con gli anni, anni di unione sempre più stretta coi gruppi famigliari successivi, fino a quando lo stesso terreno si era intriso di qualcosa che si avvicinava, ma non esattamente, a una tradizione. Qualcosa che rendeva ogni albero, ogni pietra, ogni metro di suolo, un albero Webster, una pietra o una zolla Webster. Tutto ne faceva parte.

John J., il primo John J., era giunto qui dopo lo sfaldamento delle città, dopo che gli uomini avevano abbandonato, una volta per tutte, quei rifugi del ventesimo secolo, liberandosi dall'istinto tribale di stringersi insieme in una caverna o in una radura, contro un nemico comune o una comune paura. Un istinto che era diventato fuori moda, poiché non c'erano più paure o nemici. L'uomo si era ribellato contro l'istinto del branco che le condizioni sociali ed economiche avevano impresso su di lui in epoche tramontate. Una nuova sicurezza e una nuova autosufficienza avevano reso possibile questo distacco.

La tendenza aveva avuto inizio nel ventesimo secolo, più di duecento anni prima, quando gli uomini si erano trasferiti nelle case di campagna per trovare aria pulita e spazio in cui muoversi, e una serenità di vita che l'esistenza in comune, nel senso più stretto, non aveva mai concesso.

E qui, c'era il risultato finale. Una vita tranquilla. Una pace che poteva nascere soltanto dalle cose buone. Il genere di vita che gli uomini avevano desiderato per tanto tempo. Un'esistenza feudale, basata sulle vecchie case di famiglia e tanti fertili acri all'intorno, con i dispositivi nucleari che fornivano tutta l'energia necessaria, e robot al posto dei servi in carne ed ossa.

Webster fissò sorridendo il caminetto e i ceppi infiammati. Quello era un anacronismo, ma bello... qualcosa che gli uomini avevano portato con sé dalle caverne. Inutile, poiché il riscaldamento nucleare era migliore... ma più piacevole. Non ci si poteva sedere e guardare i nuclei atomici, sognando ed edificando castelli tra le fiamme.

Perfino la cripta là fuori, dove avevano posto suo padre quel pomeriggio. Anche quella faceva parte della famiglia. Un tutt'uno col resto della casa. Quell'orgoglio intriso d'una vaga malinconia, la vita comoda e la pace. Ai vecchi tempi i morti venivano seppelliti in vasti terreni, tutti insieme, estranei guancia a guancia con altri estranei...

Non va mai da nessuna parte.

Era quello che Jenkins aveva detto al prete.

Ed era giusto. Giacché, che bisogno c'era mai di andare da qualche parte? Qui c'era tutto. Semplicemente girando un disco combinatorio si poteva parlare viso a viso con chiunque si volesse, si poteva andare, con i sensi se non con il corpo, dovunque si desiderasse. Si poteva assistere a uno spettacolo teatrale o ascoltare un concerto o sfogliare una biblioteca che, in realtà, si trovava agli antipodi. Si poteva trattare qualunque affare di cui vi fosse necessità senza mai doversi alzare dalla propria sedia.

Webster sorseggiò il whisky, poi si girò verso il disco combinatore accanto alla scrivania.

Girò il disco a memoria, senza dover ricorrere all'agenda. Sapeva dove stava andando.

La stanza si dissolse... o parve dissolversi. Era rimasta soltanto la comoda sedia su cui sedeva, parte della scrivania, parte dello stesso comunicatore, e nient'altro.

Era come se fosse seduto sul pendio d'una collina coperto d'erba dorata qua e là punteggiato da alberi selvatici, contorti dal vento, un pendio che si allargava dolcemente fino a un lago annidato nella stretta degli speroni purpurei della montagna. Gli speroni, striati dalle distese azzurrastre dei pini, salivano in enormi gradoni formati da una sconvolta distesa di rocce, che si fondevano, in alto, con le cime incappucciate di neve, bluastre per la distanza, drizzandosi in un contorno frastagliato di denti di sega.

Il vento soffiava aspro, tra gli alberi rannicchiati, e dava improvvise strappate all'erba alta. Gli ultimi raggi del sole infiammavano le vette lontane.

Solitudine e immensità, una lunga distesa di terra feconda e viva, la calda intimità del lago, le ombre simili a lunghe lame di coltello delle lontane catene.

Webster se ne stava comodamente seduto, socchiudendo gli occhi verso le vette.

Una voce disse, quasi all'altezza della sua spalla: «Posso entrare?»

Una voce vellutata, sibilante, interamente non umana. Ma che Webster conosceva.

Annuì col capo. «Ma certo, Juwain».

Si girò un poco e vide l'elaborato piedestallo da riposo, la figura pelosa, gli occhi morbidi del marziano accovacciato sopra di esso. Altro arredamento alieno si disegnava indistinto oltre il piedestallo, arredamento di quella dimora marziana, che si riusciva a indovinare solo in parte.

Il marziano agitò una mano pelosa verso la catena di montagne.

«A te piace», commentò. «Tu puoi capirlo. E io posso capire che tu puoi capirlo, ma per me c'è più terrore che bellezza. È qualcosa che non potremo mai avere su Marte».

Webster tese una mano, ma il marziano lo fermò.

«Lascialo acceso», disse. «So perché sei venuto qui. Non sarei venuto in un momento come questo, se non avessi pensato che un vecchio amico...»

«È gentile da parte tua», disse Webster. «Sono contento che tu sia venuto».

«Tuo padre», annuì Juwain, «era un grand'uomo. Ricordo come tu mi parlavi di lui, durante gli anni che hai passato su Marte. Allora, dicevi che un giorno saresti tornato. Perché non l'hai fatto?»

«È che...» cominciò Webster, «io non ho mai...»

«Non dirmelo», l'interruppe il marziano. «Lo so già».

«Mio figlio» disse Webster, «verrà su Marte fra pochi giorni. Gli dirò di farti visita».

«Sarebbe un pia'cere», replicò Juwain. «Lo aspetterò».

Si mosse incerto sul piedestallo da riposo. «Sta forse continuando la tradizione?»

«No», disse Webster. «Studia ingegneria. Non si è mai interessato alla medicina».

«Ha il diritto di seguire la via che ha scelto», osservò il marziano. «Tuttavia, a noi era pur sempre concesso sperarlo».

«Sì, la speranza è lecita», ammise Webster, «ma ormai la cosa è fatta e conclusa. Forse diverrà un grande ingegnere. Strutture spaziali. Parla sempre di navi dirette alle stelle».

«Forse», suggerì Juwain, «la tua famiglia ha già fatto abbastanza per la scienza medica. Tu e tuo padre...»

«E suo padre prima di lui», aggiunse Webster.

«Il tuo libro», dichiarò Juwain, «ha fatto sì che Marte sia in debito verso di te. Potrà invitare molti più medici a specializzarsi in anatomia e fisiologia marziana. La mia gente non ha, per natura, la capacità di produrre buoni medici. Mancano completamente di basi. Strano come si comporta la mente di specie diverse. Strano che Marte non abbia mai rivolto attenzione alla medicina — letteralmente, non ci ha mai pensato. Ha affrontato il problema con un completo fatalismo. Mentre voi, perfino ai primordi della vostra storia, quando gli uomini vivevano ancora nelle caverne...»

«Ma ci sono molte altre cose», replicò Webster, «alle quali voi avete pensato e noi no. Cose che, adesso, ci chiediamo come mai ci fossero sfuggite. Capacità che voi avete sviluppato e noi non avevamo. Prendi la tua specialità, la filosofia. Così diversa dalla nostra. Una vera scienza, mentre la nostra filosofia non è mai stata più di un confuso brancolare. Il vostro, un logico, ordinato sviluppo di una filosofia pratica, fattibile, applicabile, un vero e proprio strumento».

Juwain fece per replicare, esitò, poi proseguì: «Sono vicino a qualcosa... qualcosa che potrebbe esser nuovo e sorprendente. Qualcosa che potrebbe essere uno strumento per voi umani, come pure per noi marziani. Ci ho lavorato sopra per anni, partendo da certi concetti mentali che per la prima volta mi sono stati suggeriti dall'arrivo dei terrestri. Non ho detto niente, finora, poiché non ne ero sicuro...»

«E adesso», suggerì Webster, «ne sei sicuro».

«Non proprio», disse Juwain, «ma quasi».

Sedettero in silenzio, contemplando le montagne e il lago. Un uccello volò fin lì, si posò su uno di quegli alberi contorti, e cominciò a cantare. Nuvole oscure si ammassarono dietro la catena montagnosa e le vette incappucciate di neve spiccarono come immense statue scolpite. Il sole sprofondò in un lago scarlatto, riducendosi a un fuoco che si stava spegnendo.

Qualcuno bussò, e Webster si agitò sulla poltroncina, riportato bruscamente alla realtà dello studio, di ciò che concretamente lo circondava.

Juwain se n'era andato. Il vecchio filosofo era venuto ed era rimasto in contemplazione per un'ora col suo amico, poi era scivolato via in silenzio.

Di nuovo, qualcuno bussò.

Webster si sporse, fece scattare la levetta e le montagne svanirono. La stanza ridivenne una stanza. L'imbrunire filtrava attraverso le alte finestre, e il fuoco era un rosso tremolio fra le ceneri.

«Entra», disse Webster.

Jenkins aprì la porta. «La cena è servita, signore», annunciò.

«Grazie», rispose Webster. Si alzò in silenzio.

«Il suo posto, signore», disse Jenkins, «è pronto a capotavola».

«Ah, sì», annuì Webster. «Grazie, Jenkins. Tante grazie per avermelo ricordato».

 

Webster era in piedi, sull'ampia rampa dello spazioporto, intento a seguire con lo sguardo la forma che rimpiccioliva nel cielo, coi minuscoli punti rossi guizzanti nella gelida luminosità dell'aria invernale.

Rimase lì per molti minuti, anche dopo che la forma fu scomparsa, con le mani che stringevano la ringhiera davanti a lui, gli occhi ancora sollevati verso il cielo.

Le sue labbra si mossero, e articolò: «Arrivederci, figlio». Ma non vi fu alcun suono.

Lentamente, ridivenne consapevole di ciò che lo circondava. Seppe che la gente si muoveva intorno alla rampa, vide che il campo d'atterraggio sembrava prolungarsi all'infinito fino al lontano orizzonte, punteggiato qua e là da oggetti gibbosi che erano astronavi in attesa. Trattori sobbalzanti erano al lavoro accanto a uno degli hangar, spazzando via la neve caduta la notte prima.

Webster rabbrividì, e pensò che era strano, perché il sole di mezzogiorno era caldo. E rabbrividì di nuovo.

Lentamente, si staccò dalla ringhiera e si diresse verso gli edifici amministrativi. E per un attimo — che parve strappargli via, letteralmente, il cervello — provò un'improvvisa paura, un'irragionevole, imbarazzante paura di quel tratto di cemento che formava la rampa. Una paura che lo lasciò scosso mentalmente, mentre guidava i suoi passi verso la porta che lo aspettava aperta.

Un uomo s'incamminò verso di lui, con una valigia sorretta da una mano. Webster, scrutandolo, desiderò fervidamente che l'uomo non gli rivolgesse parola.

L'uomo non parlò. Gli passò accanto, rivolgendogli un'occhiata distratta, e Webster provò un vivo sollievo.

Se fosse stato a casa, si disse Webster, ora, finito il pranzo, sarebbe stato pronto a distendersi per il suo pisolino pomeridiano. Il fuoco sarebbe avvampato nel caminetto e il tremolio delle fiamme avrebbe tratto riflessi dagli alari d'ottone. Jenkins gli avrebbe servito un liquore e avrebbe detto una parola o due... una conversazione senza importanza.

Si affrettò verso quella porta, accelerando il passo, ansioso di allontanarsi dalla distesa spoglia e gelida dell'enorme rampa.

Strano, ciò che aveva provato per Thomas. Naturale, certo, che gli spiacesse vederlo partire. Ma era del tutto innaturale, al contrario, provare un tale orrore, in quegli ultimi minuti, quell'orrore che, in maniera così spaventosa, era salito dentro di lui. Orrore per il viaggio attraverso lo spazio, orrore per l'aliena terra di Marte... anche se Marte, di alieno, non aveva più nulla. Ormai i terrestri lo conoscevano da più di un secolo, lo avevano affrontato e avevano imparato a viverci; alcuni avevano perfino imparato ad amarlo.

Ma era stato soltanto a prezzo d'un tremendo sforzo di volontà che era riuscito a impedirsi, negli ultimi istanti prima che la nave decollasse, di precipitarsi fuori, in mezzo al campo, gridando a Thomas che tornasse indietro, gridandogli che non partisse.

E, naturalmente, non l'avrebbe fermato. Sarebbe stato puro esibizionismo, vergognoso, umiliante... il genere di cosa che un Webster non poteva fare.

Dopotutto, si disse, un viaggio fino a Marte non era una grande avventura, non più. Un tempo, sì, ma erano giorni finiti per sempre. Lui stesso, quand'era più giovane, aveva fatto un viaggio fino a Marte, e vi era rimasto per cinque lunghi anni. Era stato — e restò alcuni istanti a bocca aperta, nello sforzo di ricordare — quasi trent'anni prima.

L'intenso brusio dell'atrio lo colpì come uno schiaffo, quando un inserviente robot gli aprì la porta, e in quel confuso vociare serpeggiava qualcosa che era, quasi, terrore. Ebbe un attimo di esitazione, poi entrò. La porta si chiuse con un sibilo soffocato alle sue spalle.

Si tenne accanto alla parete, per restar fuori dal flusso della gente, dirigendosi verso una poltrona in un angolo. Vi prese posto, rannicchiandosi, costringendo il suo corpo a sprofondare nei cuscini, contemplando il ribollire dell'umanità nella sala.

Gente dalla voce stridula, gente frettolosa, dalle strane facce, poco socievoli. Estranei — tutti, non uno escluso. Non un solo volto che conoscesse. Gente che andava in tanti posti. Diretta ai pianeti. Ansiosa di partire. Preoccupata per gli ultimi particolari. Affannata, sempre di corsa.

In mezzo alla folla, si profilò una faccia familiare. Webster si curvò in avanti: «Jenkins!» urlò, poi si spiacque per l'urlo, anche se nessuno parve essersene accorto.

Il robot gli si avvicinò, e si fermò davanti a lui.

«Di' a Raymond», disse Webster, «che devo tornare subito a casa. Digli di portare l'elicottero qui davanti, subito».

«Mi spiace, signore», annunciò Jenkins, «ma non possiamo partire subito. I meccanici hanno trovato un guasto nella camera atomica. Ne stanno installando una nuova. Ci vorranno alcune ore».

«Sono convinto», ribatté Webster, con voce impaziente, «che potrebbero aspettare un altro momento per farlo».

«I meccanici hanno detto di no, signore», replicò Jenkins. «La camera potrebbe scoppiare da un momento all'altro. L'intera carica energetica...»

«Sì, sì», ammise Webster. «Suppongo di sì».

Si gingillò col cappello. «Mi sono appena ricordato», disse, «di una cosa urgente. Di qualcosa che devo far subito... Devo tornare a casa, non posso aspettare tutte queste ore».

Si sporse fin sull'orlo della poltrona, fissando la folla turbinante.

«Volti... volti...»

«Forse potrebbe videofonare», suggerì Jenkins. «Uno dei robot potrebbe essere in grado di far lui questa cosa urgente. C'è una cabina...»

«Aspetta, Jenkins», esclamò Webster. Esitò un attimo. «Non c'è niente di urgente da fare a casa. Niente del tutto. Ma devo andarci, subito. Non posso restare qui. Se resterò qui ancora un poco, impazzirò. Ho provato una gran paura, là fuori, sulla rampa. E sono ancora sconcertato e confuso, qui. Ho una sensazione... una strana, terribile sensazione. Jenkins, io...»

«Capisco, signore», disse Jenkins. «Anche suo padre l'aveva».

Webster restò a bocca aperta: «Mio padre?»

«Sì, signore. È per questo che non andava mai da nessuna parte. Aveva circa la sua età, signore, quando lo scoprì. Tentò di fare un viaggio in Europa, una volta, ma non ci riuscì. Arrivò a metà strada, poi tornò indietro. Aveva un nome per definirla».

Webster restò in silenzio, colpito.

«Un nome per definirla», disse infine. «Certo che c'è un nome. E mio padre ne soffriva... E mio nonno?»

«Questo non lo so, signore», rispose Jenkins. «Io fui creato quando suo nonno era ormai assai avanti con gli anni. Ma potrebbe esserne stato afflitto anche lui... Neppure lui andava da nessuna parte».

«Allora tu capisci», replicò Webster. «Sai già com'è... Ho una tremenda sensazione, mi sembra di star male... fisicamente male. Vedi se riesci a noleggiare un elicottero, qualunque cosa, purché si torni subito a casa».

«Sì, signore», disse Jenkins.

Fece per avviarsi, ma Webster lo richiamò:

«Jenkins, c'è qualcun altro che lo sa? Chiunque...»

«No, signore», rispose Jenkins. «Suo padre non l'ha mai detto a nessuno ed io, per qualche ragione, ho sempre saputo che non avrebbe avuto alcun piacere se ne avessi parlato in giro».

«Grazie, Jenkins», disse Webster.

Webster tornò a rannicchiarsi nella poltrona; si sentiva desolato, solo e smarrito. Completamente solo in quell'atrio brulicante... una solitudine che lo straziava, che gli fiaccava i nervi, lasciandolo esausto.

Nostalgia di casa. Un'esplicita, vergognosa nostalgia di casa, si disse. Ciò che, si presume, un ragazzo prova quando per la prima volta si allontana dalla famiglia e va ad affrontare il mondo.

C'era anche una parola astrusa per definirla: agorafobia, il morboso timore degli spazi aperti, derivata dal greco «fobos», paura, e «agorà», piazza.

Se avesse attraversato l'atrio fino alla cabina videofonica, avrebbe potuto fare una chiamata, parlare con sua madre o uno dei robot, o, meglio ancora, starsene seduto e fissare quell'immagine della sua casa, e placarsi, fino a quando Jenkins non fosse venuto a prenderlo.

Fece per alzarsi, poi riaffondò nella poltrona. Non c'era niente da fare. Avrebbe potuto soltanto parlare con qualcuno, o guardare qualcosa di familiare, che però non era lì, con lui. Non avrebbe potuto sentire il profumo dei pini nell'aria invernale, o ascoltare il crepitio della neve schiacciata sotto i suoi piedi mentre passeggiava, e meno ancora allungare una mano e toccare una delle enormi querce che fiancheggiavano il sentiero. Non avrebbe potuto scaldarsi al fuoco... ma soprattutto non avrebbe percepito l'innegabile, profonda, onnipresente sensazione di appartenenza, di essere un tutt'uno con quell'estensione di terra e con tutte le cose sopra di essa.

Eppure... forse gli sarebbe stato ugualmente di aiuto. Non molto, forse, ma qualcosa. Nuovamente fece per alzarsi dalla poltrona, ma tornò a immobilizzarsi. I pochi passi fino alla cabina rappresentavano per lui un terrore senza nome, un'esperienza folle, sconvolgente. Avrebbe dovuto precipitarsi di corsa per valicare quella breve distanza, per sfuggire a tutti quegli occhi che lo fissavano, a quel caos di rumori, a quelle voci sconosciute, a quell'angosciosa vicinanza di volti estranei.

Tornò ad afflosciarsi nella poltrona.

La voce stridula d'una donna trapassò l'atrio, e lui si ritrasse istintivamente. Si sentiva male, tremendamente male. Desiderò che Jenkins riuscisse a far presto.

 

Il primo alito della primavera entrò dalla finestra, riempiendo lo studio con la promessa di nevi che si scioglievano al sole, dei fiori e delle foglie, di uccelli acquatici in volo verso nord in formazione a cuneo attraverso l'azzurro, di trote in attesa, nelle pozze d'acqua, dell'esca.

Webster alzò gli occhi dal fascio di fogli sulla scrivania, inspirò la brezza, colse l'alito fresco sulle sue guance. Tese la mano verso il bicchiere di brandy, lo trovò vuoto, lo rimise giù.

Tornò a chinarsi sulle carte, prese la matita e cancellò una parola con un tratto.

Con occhio critico, rilesse gli ultimi paragrafi:

 

Il fatto che dei duecentocinquanta uomini che sono stati invitati a farmi visita, presumibilmente per motivi di non trascurabile importanza, soltanto tre siano stati in grado di venire, non dimostra necessariamente che tutti, salvo quei tre, siano vittime dell'agorafobia. Alcuni potrebbero aver avuto motivi del tutto validi per non essere stati in grado di accettare il mio invito. Ma questo indica, comunque, una crescente indisponibilità da parte di uomini che vivono quel tipo di esistenza instauratosi sulla Terra in seguito allo sfasciarsi delle città, a spostarsi dai luoghi familiari, l'istinto sempre più intenso a restare fra gli scenari e le proprietà che, nella loro mente, hanno finito per associarsi con tutto ciò che di piacevole e gratificante offre la vita.

Quale possa essere il risultato finale di questa tendenza, nessuno può prevederlo chiaramente, poiché essa si applica soltanto a una piccola frazione della popolazione della Terra. Nelle famiglie più numerose, la pressione economica costringe alcuni dei figli a cercar fortuna in altre parti della Terra oppure su uno degli altri pianeti. Molti altri cercano deliberatamente l'avventura e le occasioni nello spazio. E altri, infine, abbracciano professioni e attività commerciali che rendono ad essi impossibile un'esistenza sedentaria.

 

Continuò, girando una pagina dopo l'altra, fino all'ultima.

Era un ottimo saggio, lo sapeva, ma non poteva venir pubblicato, adesso. Forse, dopo che lui fosse morto. Nessuno, per quanto lui avesse appurato, si era anche soltanto reso vagamente conto di questa tendenza, tutti avevano accettato come un fatto naturale la riluttanza della gente ad allontanarsi dalla propria casa. Perché mai, dopotutto, avrebbero dovuto lasciare le proprie case?

Il televisore borbottò, accanto al suo gomito. Webster allungò una mano e fece scattare l'interruttore.

La stanza svanì, e si trovò faccia a faccia con un uomo che sedeva dietro a una scrivania, quasi come se fosse seduto sul lato opposto della scrivania di Webster. Un uomo dai capelli grigi, gli occhi tristi dietro le spesse lenti.

Per un attimo Webster lo fissò, mentre un ricordo prendeva forma in lui.

«Ma è proprio...» fece, istintivamente, e l'uomo sorrise, gravemente.

«Sono cambiato», disse, «e anche lei. Mi chiamo Clayborne, ricorda? La Commissione Medica Marziana...»

«Clayborne! Ho spesso pensato a lei. È rimasto su Marte?».

Clayborne confermò, con un cenno del capo. «Ho letto il suo libro, dottore. Un contributo inestimabile. Ho spesso pensato che era necessario scriverlo, volevo farlo io stesso, ma non ne ho mai avuto il tempo. Meglio così. Lei ha fatto un lavoro assai migliore. Specialmente quei capitoli sul cervello».

«Il cervello marziano», replicò Webster, «mi ha sempre affascinato, per le sue caratteristiche uniche. Temo di aver passato anche troppo tempo, in quei cinque anni, a studiarlo e a prendere appunti, quando invece c'era dell'altro lavoro da fare».

«È stata una fortuna che l'abbia fatto», dichiarò Clayborne. «È per questo che l'ho chiamata, adesso. Ho un paziente... un'operazione al cervello. Soltanto lei può farla».

Webster boccheggiò, le mani gli tremarono. «Lo portate qui?»

Clayborne scosse il capo. «Non è possibile spostarlo. Lei lo conosce, credo. Juwain, il filosofo».

«Juwain!» esclamò Webster, folgorato. «È uno dei miei migliori amici. Abbiamo parlato insieme soltanto un paio di giorni fa».

«L'attacco è stato improvviso», spiegò Clayborne. «Ha chiesto di lei».

Webster tacque, in preda a una sensazione di gelo... un gelo che gli strisciava addosso proveniente da un qualche inimmaginabile luogo. Un gelo che, pure, gl'imperlava di sudore la fronte, che gli faceva stringere spasmodicamente i pugni.

«Se parte subito», proseguì Clayborne, «potrà arrivare qui in tempo. Ho già sistemato le cose col Comitato Mondiale, perché una nave sia messa subito a sua disposizione. È necessario agire con la massima urgenza».

«Ma», balbettò Webster, «ma... non posso venire».

«Non può venire!»

«È impossibile», disse Webster. «E, in ogni caso, non credo d'essere indispensabile. Certamente lei stesso può...»

«Non posso», replicò Clayborne. «Nessuno può farlo, salvo lei. Nessun altro ha conoscenze sufficienti. Lei ha in mano la vita di Juwain. Se viene, Juwain vivrà. Se non viene, morrà».

«Non posso viaggiare nello spazio», disse Webster.

«Chiunque può viaggiare nello spazio», sbottò Clayborne. «Non è come un tempo. Oggi si possono ottenere tutte le condizioni che si desiderano».

«Ma lei non capisce», lo supplicò Webster. «Io...»

«No, non capisco», ribatté Clayborne. «Sinceramente, non capisco. Che qualcuno debba rifiutarsi di salvare la vita al proprio amico...»

I due uomini si fissarono per un lungo istante, in completo silenzio.

«Dirò al Comitato d'inviare la nave direttamente a casa sua», riprese infine Clayborne, asciutto. «Spero che, per allora, si sarà schiarito le idee, evenga».

Clayborne svanì, e la parete di fronte tornò ad esser visibile — la parete e i libri, il caminetto, i dipinti, i mobili tanto amati, la promessa della primavera che entrava a folate dalla finestra aperta.

 

Webster sedeva paralizzato nella sua poltrona, fissando la parete davanti a lui.

Juwain, il volto peloso, raggrinzito, il mormorio sibilante, la cordialità e la comprensione così tipiche in lui. Juwain, che afferrava la materia di cui erano fatti i sogni e la plasmava nella logica, in regole di vita, di comportamento. Juwain, che usava la filosofia come uno strumento, una scienza, una pietra miliare verso una vita migliore.

Webster si strinse il volto fra le mani e lottò contro l'angoscia che cresceva in lui.

Clayborne non aveva capito. E non ci si poteva aspettare che capisse, poiché non aveva alcun modo per saperlo. E perfino se l'avesse saputo, avrebbe capito? Perfino lui, Webster, non l'aveva capito negli altri, fino a quando non l'aveva scoperto in se stesso — quel serpeggiante, travolgente terrore di lasciare il proprio focolare, la propria terra, le proprie cose, i piccoli simbolismi che lui si era eretto tutt'intorno. Eppure... non lui, non lui soltanto, anche quegli altri Webster. Cominciando da John J., il primo. Uomini e donne che avevano instaurato un modo di vivere, un culto, in realtà, una tradizione di comportamento.

Lui, Jerome A. Webster, era andato su Marte quand'era giovane, e non aveva sentito, e neppure sospettato, il veleno psicologico che gli scorreva nelle vene. Allo stesso modo in cui Thomas pochi mesi prima era partito, ignaro, per Marte. Ma trent'anni di vita tranquilla, qui nel ritiro che i Webster chiamavano casa, avevano fatto emergere e sviluppare quel veleno, senza che lui se ne accorgesse. Non c'era stata, in realtà, alcuna occasione per scoprirlo.

Ora, però, era chiaro come il cristallo il modo in cui tutto ciò si era sviluppato in lui. L'abitudine, il formarsi, un po' per volta, di un radicato schema mentale, per di più potenziato dal suo associarsi a certe cose apportatrici di soddisfazione, di felicità... cose che in sé non avevano nessun valore, ma alle quali la mente l'aveva attribuito, un valore definito e concretizzato da una famiglia nell'arco di cinque generazioni...

Non c'era da meravigliarsi che qualunque altro luogo apparisse alieno, non c'era da stupirsi che ogni altro orizzonte racchiudesse, nella sua estensione, una punta di orrore.

E non c'era niente che si potesse fare per porvi rimedio... niente, vale a dire, a meno che non si tagliasse ogni albero e non si bruciasse la casa... cambiando, perfino, il corso al ruscello. E anche tutto questo avrebbe potuto non servire... anche questo.

Il televisore ronzò e Webster staccò le mani dal viso, si protese e fece scattare l'interruttore.

La stanza divenne un'unica vampata bianca, ma non si formò alcuna immagine. Una voce disse: «Chiamata segreta. Chiamata segreta».

Webster aprì un pannello sul fianco dell'apparecchio, girò due dischi, e udi il ronzio dell'energia che stava formando un completo campo schermante intorno alla stanza.

«Segretezza instaurata», annunciò.

La vampa bianca si spense e un uomo comparve, seduto sull'altro Iato della scrivania. Un uomo che Webster aveva visto molte altre volte nei notiziari televisivi, o sul giornale.

Henderson, presidente del Comitato Mondiale.

«Ho ricevuto una chiamata da Clayborne», disse Henderson.

Webster annuì senza parlare.

«Mi ha detto che lei si rifiuta di andare su Marte».

«Non mi sono rifiutato», replicò Webster. «Quando Clayborne ha interrotto la comunicazione, la questione era rimasta aperta. Gli ho detto che mi era impossibile andare, ma lui non ha voluto accettare ciò che gli ho detto, non ha voluto capire».

«Webster, lei deve andare», disse Henderson. «Lei è l'unico uomo con le conoscenze indispensabili a eseguire questa operazione su un cervello marziano. Se fosse un'operazione di routine, allora un altro potrebbe farla. Ma non un'operazione come questa».

«Potrebbe esser vero», fece Webster, «ma...»

«Non è soltanto questione di salvare una vita», insisté Henderson, «sia pure la vita di un personaggio così eminente come Juwain. Coinvolge molto di più. Juwain è suo amico. Forse le ha accennato a qualcosa che ha scoperto».

«Sì», annuì Webster. «Sì, mi ha detto qualcosa. Un nuovo concetto filosofico».

«Un concetto», dichiarò Henderson, «del quale non possiamo fare a meno. Un concetto che trasformerà da cima a fondo l'intero sistema solare, che farà compiere all'umanità, in un paio di generazioni, un salto in avanti di centinaia di migliaia d'anni. Una direttiva radicalmente nuova per i nostri scopi, verso un obbiettivo che finora non abbiamo neppure sospettato, della cui esistenza non sapevamo nulla. Una verità completamente nuova, capisce. Che mai, prima d'ora, era balenata nella mente di qualcuno».

La mano di Webster strinse il bordo della scrivania fino a quando le sue nocche non divennero bianche.

«Se Juwain muore», proseguì Henderson, «quel concetto morirà con lui. Forse perduto per sempre».

«Tenterò», disse Webster. «Tenterò...»

Gli occhi di Henderson si erano fatti duri. «È questo il meglio che può fare?»

«È il meglio», disse Webster.

«Ma, amico mio, dovrà pure avere una ragione! Una spiegazione valida...»

«Nessuna spiegazione che io voglia dare», concluse, secco, Webster.

Allungò deciso la mano e spense la comunicazione.

 

Webster era seduto alla scrivania e si fissava le mani, distese davanti a sé. Mani che avevano una grande, specifica abilità, che racchiudevano una conoscenza preziosa. Mani che avrebbero potuto salvare una vita, se fosse riuscito a farle arrivare su Marte. Mani che avrebbero potuto salvare un'idea per l'intero sistema solare, per l'umanità, per i marziani... un'idea nuova, che li avrebbe fatti progredire di centinaia di migliaia d'anni nell'arco di due generazioni.

Ma due mani incatenate a una fobia nata e cresciuta da quella vita troppo serena, tranquilla. Da una decadenza — estremamente bella, ma pur sempre micidiale.

L'uomo aveva abbandonato le città brulicanti, i luoghi in cui si rifugiava in massa, duecento anni prima. Si era sbarazzato dei vecchi nemici e delle antiche paure che l'avevano incatenato intorno ai falò dell'accampamento, si era lasciato alle spalle i folletti che l'avevano accompagnato dalle caverne.

Eppure... eppure.

Questo, era stato pur sempre un rifugio. Anche se diverso. Un rifugio non per il proprio corpo, ma per la mente. Un falò psicologico che incatenava ancora un uomo all'interno del ristretto cerchio della sua luce.

Tuttavia, Webster lo sapeva, doveva lasciare quel fuoco. Proprio come gli uomini di due secoli prima avevano fatto con le città, lui, oggi doveva allontanarsi, abbandonarlo. E senza voltarsi indietro a guardarlo.

Doveva andare su Marte... o quanto meno, mettersi in viaggio per Marte. Non c'erano discussioni di sorta: doveva andare.

Non sapeva se sarebbe sopravvissuto al viaggio, se, una volta arrivato, avrebbe potuto compiere l'operazione. Si chiese vagamente se l'agorafobia potesse rivelarsi mortale. Forse, nella sua forma più grave, lo era.

Allungò una mano per suonare, poi esitò. Non serviva dire a Jenkins di preparare le valige. Poteva farle da solo... questo, almeno, l'avrebbe tenuto occupato fino all'arrivo della nave.

Dallo scaffale più alto del guardaroba, nella camera da letto, tirò giù una valigia, e vide che era impolverata. Ci soffiò sopra, ma la polvere continuò ad aderire. Era lì da troppi anni.

Mentre riempiva la valigia con le sue cose, la camera continuò a discutere con lui, parlava col muto linguaggio che gli oggetti inanimati ma familiari potevano usare con un uomo.

«Non puoi andartene», insisteva la camera. «Non puoi andartene e lasciarmi sola».

E Webster ribatté, mezzo implorando, mezzo spiegando: «Devo andare, non capisci? È un amico, un vecchio amico. Tornerò».

Fatta la valigia, Webster tornò nel suo studio e si accasciò sulla poltrona. Doveva andare, eppure non poteva andare. Ma quando la nave fosse arrivata, quando il momento fosse venuto, sapeva che sarebbe uscito dalla casa e si sarebbe incamminato verso la nave in attesa.

Temprò la sua mente a questo fine, cercò d'imporle uno schema incrollabile, cercò di escluderne qualunque altra cosa, fuorché il pensiero che stava per lasciare la casa.

Gli oggetti dello studio s'intromettevano nel suo cervello, come se facessero parte di una cospirazione per tenerlo là. Cose che gli apparivano come se le vedesse per la prima volta. Cose vecchie, ricordate, che all'improvviso erano nuove. Il cronometro che indicava sia l'ora terrestre che quella marziana, il giorno del mese, le fasi della Luna. La fotografia di sua moglie morta, sulla scrivania. Il trofeo che aveva vinto quand'era studente. La sbeffeggiante ricevuta di una multa di dieci dollari che si era beccato su Marte, là in cornice...

Fissò tutto questo, prima irritato, poi con crescente bramosia, immagazzinando il loro ricordo nel cervello. Componenti separate di una stanza che aveva accettato, per tutti quegli anni, come un qualcosa di unico, un singolo insieme, senza mai rendersi conto della moltitudine di oggetti che, in realtà, contribuiva a formarla.

Il crepuscolo stava scendendo, il crepuscolo d'un inizio di primavera, odoroso di salici in germoglio.

La nave avrebbe dovuto esser già arrivata da tempo. Si sorprese a tender l'orecchio per coglierne il rumore, e nel medesimo istante si rese conto che non l'avrebbe udita. Una nave spinta da motori nucleari era silenziosa soltanto quando accelerava. All'atterraggio e al decollo galleggiava come un soffione, senza neppure un bisbiglio.

Ma avrebbe dovuto arrivar presto... Prestissimo, anzi, altrimenti lui non ce l'avrebbe mai fatta a partire. Se l'attesa si fosse prolungata troppo, lui ne era ben conscio, la sua decisione, sorretta dalla viva eccitazione che l'aveva preso, si sarebbe sbriciolata come un mucchio di polvere sotto la pioggia battente. Non ce l'avrebbe fatta a reggere la sua decisione ancora a lungo, investito com'era dalla continua, muta implorazione della stanza, del fuoco tremolante, del mormorio della terra sulla quale cinque generazioni di Webster avevano trascorso la loro esistenza ed erano morti.

Chiuse gli occhi e tentò di scacciare il gelo che gli stava risalendo il corpo. Non poteva permettergli che lo sopraffacesse proprio adesso, si disse. Doveva resistere. Quando la nave fosse arrivata, doveva essere perfettamente in grado di alzarsi in piedi e uscire da quella porta fino al portello aperto che lo aspettava.

Qualcuno bussò alla porta.

«Entra», disse Webster.

Era Jenkins. La luce del caminetto guizzava sulla sua pelle metallica.

«Mi avete chiamato prima, signore?» chiese.

Webster scosse la testa.

«Temevo che l'avesse fatto», spiegò Jenkins, «e si fosse chiesto perché non venivo. È accaduto un fatto del tutto straordinario, signore. Due uomini sono arrivati con una nave e hanno detto che volevano portarla via con loro, su Marte».

«Sono arrivati», disse Webster. «Perché non mi hai chiamato?»

Si alzò in piedi con uno sforzo.

«Ho pensato, signore», dichiarò Jenkins, «che lei non volesse essere disturbato. Era talmente assurdo. Alla fine, sono riuscito a fargli capire che non era possibile che lei volesse andare su Marte».

Webster s'irrigidì, sentì il gelo della paura serrarsi intorno al suo cuore. Cercando a tentoni il bordo della scrivania per aggrapparsi, riuscì in qualche modo a sedersi sulla poltrona, sentì le pareti della stanza chiudersi su di lui, una trappola che non l'avrebbe mai più lasciato andare.

 

Gentilezza

Kindness

di Lester Del Rey

Astounding, ottobre

 

Lester Del Rey è comparso di frequente in queste pagine e la sua presenza è più che giustificata poiché la prima metà degli anni quaranta fu una felice stagione produttiva per lui, anni che nel campo della fantascienzalo ebbero tra le forze più valide e ricche di umori. È probabile che questo racconto sia stato influenzato dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale e dalla nefasta influenza del nazionalismo, nel provocare conflitti. «Gentilezza» solleva importanti domande su ciò che in realtà significhi essere normali o diversi, una questione che più tardi sarebbe stata affrontata frequentemente dalla fantascienza, ad opera di scrittori diversissimi tra loro, da Del Rey a Robert Sheckley, fino a Philip K. Dick.

 

(Credo sia giunto il momento di raccontare la mia storia favorita su Lester Del Rey, poiché riguarda uno scambio verbale con lui, in cui riuscii, fatto straordinario, ad avere l'ultima parola. Un paio d'anni fa stavo raccontando uno degli insegnamenti favoriti di mio padre. Mio padre mi diceva: «Non credere, Isaac, che se ti imbranchi con dei fannulloni, tu riuscirai a fare di quei fannulloni dei tizi a posto. No! Quei fannulloni faranno diventare un fannullone anche te». Al che Lester mi chiese: «Allora, perché t'immischi ancora con dei fannulloni, Isaac?» Ed io subito gli risposi: «Perché ti voglio bene, Lester». Tutti scoppiarono a ridere, e perfino Lester stava ridendo così forte che non ebbe il tempo di pensare a una risposta. I.A.)

 

Il vento turbinò, svagato, intorno all'angolo, passando davanti a quella panchina isolata, nel parco. Ghermì, capriccioso, il giornale a terra, girando le pagine, poi ne agguantò una parte, portandole via, lasciando quelle restanti aperte sui fumetti dagli sgargianti colori. Danny si sporse in avanti, alla luce del sole, e i suoi occhi si abbassarono su quella pagina dei bambini, rimasta così esposta.

Ma non servì: non fece alcuno sforzo per chinarsi e raccogliere il giornale. In un mondo in cui perfino i fumetti per bambini avevano bisogno d'una spiegazione, non poteva esserci niente d'interessante per l'ultimo homo sapiens rimasto in vita — l'ultimo uomo normale del mondo. Il suo piede scalciò via il giornale, sotto la panchina, là dove non gli avrebbe più ricordato le sue deficienze. C'era stato un tempo in cui aveva tentato di ragionare lentamente, colmando i salti nello sviluppo logico, cogliendo l'essenzialità dietro alle cose, qualche rara volta con successo, molto più spesso, no. Ma ora preferì lasciare quei colorati disegni al rapido, intuitivo pensiero di tutti gli altri intorno a lui. Niente era più insipido, desolante, d'una vignetta umoristica il cui significato, per esser compreso, gli sarebbe costato una lunga, meditata riflessione.

Homo sapiens! La specie umana che era uscita dalle caverne e aveva edificato un mondo fatto di energia nucleare, di elettronica e altre meraviglie di vecchia data... l'uomo l'«uomo pensante», questa la traduzione dal latino. Nel lontano passato, quando i suoi antenati avevano posseduto il mondo, l'avevano trasformato in un motto di spirito, scorciandolo in «homo sap», e ne avevano riso, poiché non c'era stata nessun'altra specie in grado di rivaleggiare con loro. Ma adesso non era più una battuta.

L'uomo normale era stato solo un «sap» nei confronti dell'homo intelligens — l'uomo intelligente — che adesso era il padrone del mondo. Danny era soltanto un relitto, l'ultimo uomo normale in un mondo di superuomini. Odiava il fatto di esser nato, e che sua madre fosse morta alla sua nascita, lasciandogli soltanto la solitudine come eredità.

Si ritrasse di nuovo in un angolo della panchina, quando vide avvicinarsi una giovane coppia, calcandosi il berretto fin sopra gli occhi per evitare d'esser riconosciuto. Ma i due passarono oltre, assorti nelle proprie faccende, concedendo alle sue orecchie soltanto pochi sparsi brani di conversazione. Danny li rigirò nella sua mente, cercando, con affanno crescente, di decodificarli.

Impossibile! Perfino una conversazione casuale, distratta, si sviluppava saltando troppe fasi intermedie, nella sua logica interiore. L'homo intelligens aveva un nuovo modo di pensare, superrazionale, in cui tutti i lunghi e faticosi passi della logica potevano venir saltati all'istante. Poteva costruirsi in un attimo un'immagine completa partendo da piccoli, sparsi frammenti d'informazione. Proprio come l'homo sapiens un tempo aveva inventato la logica per sostituire il modo di procedere per prova ed errore della maggior parte degli animali, così, oggi, l'homo intelligens aveva imparato a servirsi dell'intuizione. Potevano leggere la prima pagina di uno dei vecchi libri e conoscerne immediatamente l'intero contenuto, poiché tutti i piccoli espedienti usati dall'autore si sarebbero collegati nella loro mente intuitiva, ricostruendo all'istante tutti gli anelli mancanti. Non dovevano neppure procedere per tentativi — guardavano e sapevano. Come era capitato a Newton il quale, vista cadere la mela, aveva subito capito perché i pianeti giravano intorno al sole, scoprendo le leggi della gravità... solo che questi nuovi uomini lo facevano in continuazione, e non soltanto a lunghi, rari intervalli, come un tempo era accaduto all'homo sapiens.

L'uomo normale era scomparso, salvo per Danny, e anche lui avrebbe dovuto lasciare quel mondo di superuomini. In qualche modo, presto, i piani di fuga dovevano esser completati, prima che il poco coraggio che gli era rimasto svanisse anch'esso! Si mosse irrequieto, e gli spiccioli che aveva in tasca produssero un debole tintinnio. Altra carità, o terapia occupazionale! Per sei ore al giorno, cinque giorni alla settimana, lavorava in un piccolo ufficio, eseguendo con molta fatica un lavoro abitudinario che con ogni probabilità avrebbe potuto esser fatto meglio dalle macchine. Oh, gli avevano detto che la sua capacità manuale era buona almeno quanto la loro, e che quel suo lavoro era indispensabile, ma lui ne era tutt'altro che convinto. Nella loro eterna gentilezza avevano deciso, con ogni probabilità, che era meglio, per lui, vivere nel modo il più possibile normale, e poi avevano creato un lavoro adatto alle sue capacità.

Altri passi si udirono lungo lo stretto sentiero, ma lui non alzò lo sguardo fino a quando non si fermarono. «Ciao, Danny! Non eri in biblioteca, e la signorina Larsen ha detto, giorno di paga, il tempo e tutto il resto, ti avrei trovato qui. Come vanno le cose?»

Esternamente il corpo di Jack Thorpe avrebbe potuto essere il gemello di quello, muscoloso, di Danny, e il volto sorridente sopra di esso non mostrava, in pratica, nessuna diversità apprezzabile. La mutazione che aveva trasformato l'uomo in superuomo era stata interiore, una correlazione più rapida e complessa tra le cellule cerebrali, che non si manifestavano in nessun segno esterno. Danny annuì a Jack, spostandosi con riluttanza per fargli posto sulla panchina a quell'uomo che era stato suo compagno di giochi quand'erano ambedue troppo giovani perché la differenza avesse troppa importanza.

Non chiese come mai la bibliotecaria sapesse dove lui si trovava; per quanto lui ne sapeva, non c'era nessuna particolare successione logica che facesse arguire la sua presenza in quel luogo, ma per gli altri doveva essercene una. Scoprì che riusciva perfino a sorridere della loro capacità di prevedere le sue mosse.

«Ciao, Jack. Sto bene. Credevo che fossi su Marte».

Thorpe si accigliò, come se gli fosse stato necessario uno sforzo per ricordare che il giovanotto accanto a lui era diverso, e le sue parole rispecchiarono la cautela e la precisione di tutti quelli che rivolgevano la parola a Danny: «Per il momento ho finito con Marte. Adesso dovrei andare su Venere. A proposito, laggiù hanno delle difficoltà nell'ottenere un giusto equilibrio tra maschi e femmine. Ho pensato che ti potesse attirare l'idea di venire con me. Non sei mai stato Fuori, e ricordo che lo spazio ti ha sempre appassionato».

«Mi appassiona ancora, Jack. Ma...» Sapeva benissimo perché Jack gli aveva fatto quella proposta, naturalmente. Quelli che lo seguivano, da dietro le quinte, avevano notato il suo crescente scontento, e speravano di distrarlo dandogli la possibilità di visitare i luoghi che i vecchi uomini avevano conquistato, nell'apogeo della loro razza. Ma lui, non aveva nessun desiderio di vederli com'erano adesso, pieni dell'attività dei nuovi uomini; era meglio immaginarli come dovevano essere stati una volta, piuttosto che constatare di persona la realtà. E l'astronave era qui; non poteva esserci nessuna possibilità di fuggire dagli altri mondi.

Jack annuì in fretta, con la comprensione quasi telepatica della sua razza. «Naturalmente. Fai come vuoi, amico. Vai su alla Biblioteca? La signorina Larsen dice che ha qualcosa per te».

«Non ancora, Jack. Ho pensato di dare un'occhiata a... di andare al vecchio museo».

«Oh». Thorpe si alzò lentamente, spazzolandosi distrattamente il vestito. «Danny!»

«Uh?»

«Probabilmente ti conosco meglio di chiunque altro, amico, così...» Esitò, poi scrollò le spalle e proseguì: «Non prendertela se salto alle conclusioni; starò zitto. Ma buona fortuna e... addio, Danny».

E subito si allontanò, lasiando Danny col cuore che gli balzava in gola.

Poche parole, una certa espressione del viso, probabilmente alcuni ricordi d'infanzia, e tanto sarebbe valso che Danny rivelasse la speranza che aveva coltivato nel più profondo dell'intimo, gridandola ai quattro venti! Quanti altri sapevano del suo interesse alla vecchia astronave, nel museo; quanti avevano intuito, in ogni particolare, il suo piano per fuggire da quel mondo così pieno di gentilezza nei suoi confronti, una gentilezza che era una tortura?

Schiacciò la sigaretta sotto il tacco, cercando di dimenticare i suoi timori. Jack aveva giocato con lui da bambino, e gli altri no. Doveva far conto su questo, per conservare le sue speranze, ed essere ancora più cauto, e non pensare mai al suo piano quando si trovava insieme agli altri. Nel frattempo, sarebbe rimasto lontano dalla nave. Forse, in questo modo, il sottile avvertimento di Thorpe avrebbe operato in suo favore... sempre che Jack mantenesse la sua promessa di non parlare.

Danny costrinse i suoi dubbi a lasciarlo, attaccandosi alla convinzione che non avrebbe mai osato perdere la speranza in quel suo ultimo, disperato progetto per ottenere l'indipendenza e il rispetto di se stesso. L'altra via gli offriva soltanto angoscia e una completa perdita di volontà, la stessa morte per consunzione che l'acuto complesso d'inferiorità aveva imposto, via via, agli ultimi membri della sua razza, che erano scomparsi lasciando lui, ultimo e solitario esemplare. Ma in qualche modo, era ben deciso a compiere quell'estremo tentativo di sopravvivenza; nel frattempo sarebbe andato in biblioteca, ignorando del tutto il museo.

Quando Danny salì la scala mobile, la gente sciamava fuori della biblioteca; non lo riconobbero, con berretto tirato giù sugli occhi, oppure percepirono il suo desiderio di anonimato e finsero di non conoscerlo. S'infilò in uno dei corridoi meno frequentati e si diresse alla sezione dei documenti storici, dove la signorina Larsen stava mettendo via i nastri di lettura e si preparava anche lei ad andarsene.

Ma si affrettò a mettere i nastri da parte quando lui entrò, e gli sorrise, l'ampio, caldo sorriso della sua razza. «Ehi, Danny! Il tuo amico ti ha trovato?»

«Uhmmm... sì. Ha detto che lei aveva qualcosa per me».

«Sì l'ho». Il suo volto mostrava un vivo piacere, quando si avvicinò alla scrivania, alle sue spalle, e ne prese un pacchetto incartato. Per la millesima volta, Danny si sorprese a desiderare che lei fosse della sua stessa razza, e subito soffocò quel sentimento, rendendosi conto di quale doveva essere, realmente, il suo atteggiamento. Per lei, tutti quei discorsi sul passato della sua razza erano soltanto un soggetto d'interesse storico, niente più. E lui era soltanto un relitto, di mente ottusa, dei tempi andati. «Indovina cos'è?»

Ma, suo malgrado, il suo volto s'illuminò, sia per le parole scherzose che per il pacchetto.

«Le riviste! I numeri mancanti di Space Trails

C'era un romanzo, di cui aveva potuto leggere solo la prima puntata... eppure questa gli aveva fatto battere i polsi come pochissime altre storie dei suoi antenati avevano fatto. Ora, ritrovato il seguito mancante, la sua vita, almeno per qualche altra ora, avrebbe acquistato un sapore inarrivabile, mentre lui avrebbe letto le immaginarie imprese d'un conquistatore che aveva agito libero dall'oppressione di intelligenze superiori..

«Non proprio, Danny. Non siamo riusciti a scoprire neppure la più piccola traccia di quelle riviste, ma ho dato la prima puntata in nostro possesso a Bryant Kenning, la scorsa settimana, e lui ha completato il romanzo per te». La sua voce suonò contrita. «Naturalmente, le parole non possono essere del tutto identiche, ma Kenning giura che, senza alcun dubbio, la storia è la stessa, nella sua struttura, di quella pubblicata su Space Trails,e lo stile è riprodotto esattamente!»

Era andata così, allora! Kenning si era letto le prime pagine di un romanzo che aveva richiesto settimane o mesi di riflessione e fatica a un antico scrittore, e aveva trovato in esse l'intera trama, chiaramente rivelata, e l'aveva fatta sua! Probabilmente, non aveva impiegato più di una notte a riscriverla da cima a fondo... un lavoro sgradevole e noioso, ma non difficile! Danny non metteva in dubbio l'accuratezza della duplicazione, dal momento che Kenning era il loro più grande romanziere storico. Ma tutto il piacere di quella riscoperta si era spento in lui.

Prese il pacchetto, e notò che qualche illustratore si era preso perfino il disturbo d'imitare lo stile dell'antico artista, e il testo era composto in modo da garantire che il formato delle pagine fosse identico a quello originale. «Grazie, signorina Larsen. Mi spiace dare a tutti voi tanti fastidi. Ed è stato molto gentile, da parte del signor Kenning!»

Anche il vivo piacere che aveva illuminato il volto della signorina Larsen si era spento, ma lei rispose facendo finta di nulla: «Ha voluto farlo... si è offerto spontaneamente quando ha sentito che stavamo cercando le copie mancanti. E se hai altri romanzi incompleti, Danny, Kenning vuole che tu glielo faccia sapere. Voi due, attualmente, siete praticamente gli unici che vi servite di questa sezione. Perché non vai a trovarlo? Se vuoi andarci stasera...»

«Grazie, ma questa sera preferirei invece legger questo. Dica al signor Kenning che gli sono molto grato, per favore». E fece qui una pausa, dibattendo tra sé se poteva osare di chiederle i nastri sulla storia degli asteroidi. No, il rischio che lei indovinasse sarebbe stato troppo grande, adesso o più tardi. Non poteva fidarsi di nessuno di loro, non poteva lasciarsi sfuggire il minimo indizio del suo piano.

La signorina Larsen gli sorrise di nuovo, quasi strizzandogli l'occhio. «D'accordo, Danny. Glielo dirò. Buona notte!»

Fuori, con l'aria che cominciava a rinfrescarsi nella sera imminente, Danny s'inoltrò lungo strade sconosciute, lasciando che fossero i suoi piedi a guidarlo. A un certo punto, quando un gruppetto di gente venne verso di lui, attraversò la strada senza pensare e proseguì. Il pacchetto che stringeva sotto il braccio cominciò a pesargli, lui lo trasferi sotto l'altro braccio, combattuto fra il desiderio di scoprire ciò che era accaduto all'eroe e il disgusto nei confronti del suo cervello sapiens che non era riuscito a indovinarlo. Probabilmente, più tardi, sarebbe tornato a casa a leggerlo, ma per il momento era contento di lasciare che i suoi piedi sfaccendati lo portassero in giro, tenendo in sospeso la maggior parte dei suoi pensieri.

Incontrò nel suo camminare un piccolo giardino pubblico, e lo attraversò lentamente, rendendosi vagamente conto del cicaleccio di quelle voci infantili, fino a quando non si trovò accanto a tre bambini, due maschietti e una femmina. La sorvegliante, che li avrebbe poi riportati ai centro, era una forma vaga, un'ombra lontana fra le altre ombre, e lasciava che i bambini s'impegnassero liberi e felici nell'antico passatempo di sporcarsi e d'impegnarsi in grida e zuffe innocenti.

Danny si fermò, un sorriso gli si disegnò lentamente sul volto. A quell'età, le loro capacità intuitive cominciavano appena a svilupparsi, e i loro giochi e le loro ingenue finzioni avevano ancora un senso, e agirono su di lui come un tonico. Ricordò vagamente il suo amico, che a quell'età stava incominciando ad acquisire, sia pure in modo incerto, quell'abilità di dar l'impressione di saper tutto, e la preoccupazione e le prime angosce che lui aveva provato, con questa sensazione d'esser lasciato indietro. Per un po', gli occasionali lampi d'intuizione che avevano illuminato perfino l'homo sapiens,gli avevano lasciato qualche speranza, ma alla fine il supervisore era stato costretto a dirgli che lui era diverso, e perché. Ma ora scacciò dalla sua mente quei dolorosi ricordi, e si fece avanti in silenzio, per prender parte al gioco.

L'accettarono con la disinvolta indifferenza dei bambini privi d'inibizioni, che subito s'indaffararono a costruire castelli di sabbia più alti del suo. Ma qui, la sua esperienza era maggiore della loro, e la sua pratica con quell'umido materiale friabile più sicura. Un malizioso lampo di autocompiacimento comparve nel suo sguardo, quando aggiunse un altro piano alla torreggiante struttura e costruì un ponte, sostenuto da stecchi e foglie, che portava al castello.

Poi i fanali si accesero, illuminando il recinto della sabbia e tutti quelli che vi si trovavano, dileguando le ombre sempre più fitte. Il più piccolo dei due maschietti alzò gli occhi, e solo adesso lo vide chiaramente. «Oh, sei Danny Black, non è vero? Ho visto la tua fotografia. Judy, Bobby, guardate! È quell'uomo...»

Le loro voci si affievolirono in distanza, mentre lui fuggiva attraverso il giardino, infilando di nuovo quelle strade secondarie, stringendo a sé il pacco. Sciocco! Godere per aver sconfitto dei bambini a un inutile gioco, oppure sorprendersi che lo conoscessero! Rallentò fino ad andare al passo, torcendo le labbra al pensiero che la sorvegliante ora li stesse rimproverando per la loro mancanza di sensibilità. E i suoi piedi continuavano ad avanzare senza una meta.

Ed era ovvio, inevitabile, che lo conducessero al museo, là dove si appuntavano tutte le sue segrete speranze, ma fu colto quasi di sorpresa quando alzò gli occhi e se lo vide davanti. Ma ne fu contento. Certo, non avrebbero potuto intuire niente da quella sua visita fatta all'improvviso, quasi all'ora di chiusura. Trattenne il respiro, costrinse il suo viso a un'espressione di distratto interesse, ed entrò, avanzando per i lunghi corridoi, fino alla sala dell'astronave.

Riposava là, il muso leggermente sollevato verso il cielo, agile e immensa, perfino in quella sala disegnata in modo da assomigliare alle remote distese dello spazio. Per duecento metri, il lucido metallo formava una superficie liscia, dal minimo attrito, che andava, con un profilo elegante, dalla grossa prua fino alla poppa rastremata con i suoi propulsori ionici anneriti.

Questo, Danny lo sapeva, era l'ultimo e il più grande dei transatlantici spaziali che la sua razza aveva costruito al vertice della gloria. Ma già prima di essa, la mutazione che aveva prodotto la razza degli uomini nuovi era stata provocata dalle radiazioni dello spazio profondo, e si stava diffondendo. Per un certo periodo, com'era indicato nel giornale di bordo, quella nave era salpata per Marte, Venere e gli altri avamposti dell'impero dell'uomo, mentre la tensione, in patria, lentamente saliva. E non c'era più stata, poi, una nave interamente concepita dall'homo sapiens,poiché la nuova razza si stava diffondendo in maniera esplosiva, facendo sentire la sua maggiore intelligenza, con il razzo a conversione totale, che aveva sostituito i vecchi razzi a ioni, assai meno efficienti, con i quali era stato attrezzato quel transatlantico. Alla fine, quella vecchia e gloriosa nave, incapace di competere coi nuovi modelli, era stata ritirata dal servizio e messa in disarmo, mentre la guerra fra la nuova e la vecchia razza le si era scatenata accanto, senza toccarla, anche se l'aveva seppellita sotto tonnellate di macerie, senza lasciare nessun ricordo della sua esistenza.

E ora, scavata fuori con molta cura dalle antiche rovine degli hangar in disuso, dov'era rimasta per tanto tempo, era stata solennemente collocata in quella sala monumentale del Museo Storico dell'Homo Sapiens, un anno fa, concentrando subito, intorno ad essa, tutte le speranze e le preghiere di Danny. In lui c'era ancora una sensazione di meraviglia, mentre attraversava lentamente il pavimento coperto dall'ampio tappeto, verso il boccaporto aperto e l'interno illuminato.

«Danny!» Il richiamo improvviso lo fermò, facendolo girare di scatto con un sussulto colpevole, ma era soltanto il professor Kirk. Tornò a rilassarsi. Il vecchio archeologo venne avanti, verso di lui, il suo sorriso era appena visibile nella penombra dell'immensa cupola. «Credevo proprio che non ti avrei visto, ragazzo mio, e stavo per andarmene. Ma ho dato un'occhiata dietro di me, e ti ho visto. Ho pensato che potrebbe interessarti qualche nuova informazione in cui mi sono imbattuto oggi».

«Informazioni sulla nave?»

«Che altro? Ecco, vieni dentro, nel soggiorno della nave... godo di qualche privilegio in questo museo, e tanto vale che ci mettiamo comodi. Sai, man mano invecchio, mi scopro ad apprezzare sempre di più il concetto che avevano della comodità i tuoi antenati, Danny. È davvero un peccato che la nostra cultura sia ancora troppo giovane per apprezzare nel giusto modo tanto lusso». Di tutti i membri della nuova razza, Kirk sembrava quello più completamente a suo agio davanti a Danny. In parte per la sua età, in parte perché avevano condiviso lo stesso entusiasmo per la grande nave, fin dal giorno del suo ritrovamento.

Kirk si lasciò andare su uno di quei vecchi divani, usando i privilegi del suo rango per accendersi una sigaretta e passarne un'altra al giovane. «Tu sai come tutti i rifornimenti e gli oggetti a bordo di questa nave ci avessero lasciati entrambi perplessi, e come non fossimo riusciti a trovare nessuna documentazione che li giustificasse. Il giornale di bordo s'interrompe il giorno in cui misero questa vecchia nave in disarmo, ricordi? E non siamo mai riusciti a capire perché mai fosse stata completamente rimessa a nuovo e rifornita, come se fosse pronta a partire per un nuovo viaggio nello spazio. Be', è venuto alla luce durante una nuova serie di scavi. Danny, fu la tua gente a farlo, durante la guerra; o meglio, dopo che ebbero perduto la guerra contro di noi!»

Danny drizzò la schiena. La guerra era un periodo della storia al quale aveva sempre evitato di pensare, anche se lo conosceva a grandi linee. Con l'homo intelligens in tumultuosa crescita, che premeva e spingeva da parte la razza più vecchia, secondo le leggi della sopravvivenza, la sua gente aveva compiuto un ultimo, disperato tentativo per riguadagnare la supremazia. E anche se la nuova razza non voleva la guerra, alla fine era stata costretta a combattere per difendersi, con la stessa mancanza di misericordia che era stata usata nei suoi confronti; e poiché gli uomini nuovi avevano il tremendo vantaggio del nuovo pensiero intuitivo, quando la breve, violentissima guerra terminò, erano rimaste soltanto poche migliaia di diversi miliardi d'individui della vecchia razza. Con tutta probabilità, ciò era stato inevitabile sin dal manifestarsi della prima mutazione, ma era qualcosa a cui Danny preferiva non pensare. Ora annuì, e lasciò che l'altro continuasse.

«A quell'epoca, Danny, i tuoi antenati erano stati battuti, ma non completamente schiacciati, e impiegarono le ultime scintille d'energia che gli restavano per riattrezzare questa nave, l'unica che gli restasse in grado di volare, e rifornirla completamente. Sarebbero partiti per lo spazio esterno, non sapendo esattamente dove, erano disposti perfino a raggiungere un altro sistema solare, portando un drappello di gente della vecchia razza lontano da noi, per un nuovo inizio. Fu il loro ultimo tentativo per sopravvivere, e fallì quando la mia gente venne a saperlo e bombardò gli hangar, facendoli crollare sopra la nave, ma fu una sconfitta gloriosa, ragazzo! Ho pensato che ti sarebbe piaciuto saperlo».

Danny mise lentamente a fuoco i propri pensieri. «Vuol dire che tutto ciò che si trova su questa nave appartiene al mio popolo? Ma certo le provviste non possono esser rimaste utilizzabili tutto questo tempo!»

«Tuttavia, è così. Le analisi che abbiamo fatto lo dimostrano in modo conclusivo. La tua gente sapeva come conservare le cose proprio come noi, e si aspettavano di dover viaggiare attraverso lo spazio con questa nave almeno per mezzo secolo, o più ancora. Queste provviste saranno utilizzabili anche fra mille anni». Lanciò il mozzicone di sigaretta attraverso la stanza, ed ebbe un risolino compiaciuto quando lo vide centrare un portacenere. «In effetti, mi sono fermato qui, questa sera, proprio per dirti questo, e ho portato i documenti nel mio studio per farteli vedere. Perché non vieni con me, subito?»

«Non stasera, signore. Preferirei restare qui ancora un po'».

Il professor Kirk annuì, alzandosi in piedi con riluttanza. «Come vuoi... So quello che provi, e davvero mi dispiace che abbiano deciso di trasferire questa nave. Ne sentiremo la mancanza, Danny!»

«Trasferiranno questa nave?»

«Non l'hai saputo? Credevo che fosse per questo che sei venuto qui, a quest'ora. La vogliono a Londra, e porteranno qui una delle vecchie navi lunari, per sostituirla. Peccato davvero!» Sfiorò pensieroso le paratie, abbassò le mani e le passò sul morbido tessuto del sedile. «Be', non fermarti troppo a lungo, e spegni le luci prima di andartene. Il museo chiuderà fra mezz'ora. Buona notte, Danny».

«Buona notte, professore». Danny restò seduto, come impietrito, sul morbido divano, ascoltando il lento passo del vecchio che si allontanava, e il proprio cuore. Trasferivano la nave, mandavano in frantumi i suoi piani, lasciandolo arenato in quel mondo che apparteneva alla nuova razza, dove perfino i bambini si dispiacevano per lui. Quel piano... aveva significato tanto per lui, anche soltanto la speranza che sarebbe fuggito, un giorno! Spense, con gesti bruschi, le luci, sentendosi più vicino alla nave nell'intimità del buio, dove nessun guardiano avrebbe potuto cogliere le sue emozioni. Per tutto l'ultimo anno aveva costruito la sua vita intorno all'idea di portare quella nave nello spazio, via da lì. Di lasciarsi la nuova razza alle spalle, lontanissima da lui. Aveva passato lunghi, attenti mesi nello studio della sua struttura, identificando la posizione di ogni sua parte, accertandosi, sfogliando una pagina dopo l'altra dei vecchi manuali, di essere in grado di farla funzionare. In pratica, era stata concepita proprio per questo, per essere guidata da un solo uomo, perfino da un mutilato, in caso di emergenza, e quasi tutti i meccanismi erano automatici. Era rimasto soltanto il problema di dove andare, poiché anche gli altri pianeti del sistema solare brulicavano di uomini della nuova razza, ma il giornale di bordo aveva suggerito la risposta anche a questo.

 

Un tempo, fra gli uomini della sua razza, c'erano stati dei ricchi che cercavano le novità e l'isolamento, e li avevano trovati fra gli asteroidi maggiori; il denaro e la scienza avevano realizzato per loro la gravità artificiale, generata da impianti ad energia nucleare che sarebbero durati per sempre. Adesso, i ricchi erano, fuori di dubbio, morti, e la nuova razza aveva abbandonato quelle cose inutili. Certamente, fra gli asteroidi, vi sarebbe stato un paradiso per lui, reso sicuro dal numero stesso dei piccoli mondi, un brulichio che avrebbe scoraggiato qualunque ricerca.

Danny sentì passare uno dei guardiani, e si alzò lentamente in piedi, per uscire nuovamente in un mondo che gli avrebbe negato anche quella speranza. Era stato un progetto meraviglioso per sognare, un sogno indispensabile. Poi, il rumore delle grandi porte gli giunse alle orecchie: si stavano chiudendo! Il professore si era dimenticato di avvertirli della sua presenza, là dentro. E lui...

D'accordo, lui non conosceva la storia di tutti quei piccoli mondi; forse avrebbe dovuto esplorarne chissà quanti, uno a uno, prima di trovare una casa adatta a lui. Ma che importava? Non sarebbe mai stato più pronto. Esitò soltanto un attimo; poi le sue mani fecero scattare l'interruttore che azionava il grande boccaporto, e questo si chiuse in silenzio, nel buio, impedendo a chiunque si trovasse là fuori, di udirlo, mentre si precipitava di corsa attraverso la nave.

Le luci si riaccesero in silenzio, quando trovò il seggiolino davanti al quadro dei comandi e vi si lasciò cadere. Le spie che si accendevano via via, indicavano, oltre ogni dubbio, che la nave era pronta. «Nave pressurizzata... Ciclo dell'aria in funzione... Energia sull'automatico... Motori sull'automatico...» Una cinquantina di luci e indici l'informavano che la nave aspettava soltanto lui, per partire. Azionò il tracciatore automatico, e la traiettoria prevista si disegnò sopra la piccola mappa atmosferica, fino alla stratosfera; qui, s'inserì la grande mappa stellare, che si srotolò lentamente mentre il tracciatore azionato dalle sue dita disegnava una rotta irregolare che l'avrebbe portato, ben lontano da Marte, in direzione degli asteroidi. Una rotta forzatamente vaga, imprecisa; ma più tardi avrebbe potuto regolare gli analizzatori, stabilire l'attuale posizione di alcuni fra gli asteroidi maggiori, calcolando la sua rotta con maggior accuratezza. Ma adesso, la cosa più importante era partire, fuggir via, prima che potessero lanciare l'allarme e fermarlo.

Qualche istante più tardi, le sue dita schiacciarono con forza selvaggia l'interruttore principale dell'energia, e la nave partì con un balzo improvviso, seguito da un secondo sobbalzo quando le mura del museo crollarono sotto la spinta dei grandi propulsori ionici. Sulla mappa comparve un minuscolo punto luminoso, che indicava la posizione della nave sulla rotta prestabilita. Ormai, quel mondo era dietro di lui, e non c'era nessuno, lì, a osservare i suoi sforzi con quel misto di gentilezza e pietà che aveva sempre sottolineato la sua insufficienza. Ora, lui era solo, a misurarsi contro il suo destino, e i suoi antenati l'avevano affrontato e vinto molto tempo prima.

Squillò un campanello, la nave era uscita dall'atmosfera; il grosso pilota automatico prese a chiocciare soddisfatto, emettendo di tanto in tanto uno strombettio più acuto quando era costretto a far compiere brusche virate alla nave lungo quella rotta nient'affatto ortodossa. Danny si girò a fissarlo, compiaciuto del suo perfetto funzionamento. I suoi antenati potevano anche essere stati capaci soltanto di lenti e faticosi ragionamenti, ma avevano costruito macchine provviste d'intuito, o quasi. E la prova era quella nave, tutt'intorno a lui. Drizzò la testa, si alzò in piedi e si avviò alla cucina con passo scattante.

Il cibo era ancora ottimo. Lo divorò, ricordando di aver saltato la cena, e sfogliando lentamente il giornale di bordo che registrava i lunghi viaggi fatti dalla nave, cercando in esso ogni più piccolo riferimento agli asteroidi, Cerere, Pallade, Vesta, o magari alcuni di quelli cui ci si riferiva con sigle o numeri, o addirittura con soprannomi. Ma quale scegliere?

Prese, comunque, una decisione, quando si ritrovò nella sala di navigazione, intento a scrutare le gelide immensità dello spazio; là fuori, soltanto minuscoli punti di vivida luce l'interrompevano, le stelle, intense e colorate com'era impossibile vederle attraverso il velo fumoso di un'atmosfera. Sarebbe stato uno dei planetoidi contrassegnati da un numero, quello che veniva chiamato anche «Il Danese» nel giornale di bordo. Il soprannome non sembrava avere nessun significato preciso, ma gli era parso di capire che fosse stato uno degli ultimi ad essere terrestrizzati, e più a fondo, anche se non l'ultimissimo, dal quale le ricerche sarebbero certamente cominciate.

Regolò il ricercatore automatico, partendo dal numero che contrassegnava l'asteroide sul manuale, e seguì il suo lavoro per un po', anche se procedeva assai lentamente, calcolando le posizioni successive del «Danese» attraverso gli anni trascorsi dall'ultima registrata, che erano tanti. Per un po' si gingillò con la radio, prima di ricordare che funzionava con un profilo d'onda non più in uso. Tanto meglio: la sua separazione dalla nuova razza sarebbe stata ancora più definitiva.

L'analizzatore proseguì, lento, lo spazio perse il suo sapore di novità, e il funzionamento del pilota automatico smise d'interessarlo. Riattraversò la nave verso il soggiorno, per dare un'occhiata al pacchetto là dove l'aveva lasciato cadere, dimenticandosene. Non c'era altro da fare, per lui.

E quand'ebbe cominciato a leggere, dimenticò ogni dubbio o contrarietà dovuti al fatto che era una storia scritta da Kenning, e non l'originale; la narrazione aveva la stessa intensità e lo stesso calore, e i personaggi umani lo stesso impulso di una razza che aveva affrontato e dominato il destino tanto tempo fa. C'era poco da meravigliarsi se i lettori di quell'epoca l'avessero definita la più grande epica spaziale che fosse mai stata scritta!

S'interruppe soltanto una volta, quando l'analizzatore terminò i suoi calcoli, e inserì le coordinate del piccolo mondo che avrebbe potuto diventare la sua casa, con un po' di fortuna, nel pilota automatico. E poi la nave proseguì, senza più compiere brusche virate, su una lunga rotta lievemente incurvata, la migliore prescelta fra le molte possibili, mentre Danny riprendeva a leggere letteralmente acciambellato, nel seggiolino del pilota, su quelle pagine, provando una nuova e ben maggiore affinità coi personaggi della storia. Non era più un caso pietoso, incatenato alla Terra, ma un vero uomo, un avventuriero come loro!

Continuò a leggere, fremente, finché la storia non arrivò alla fine, e lasciò cadere la risma di fogli sul pavimento dalle sue stanche dita. Sul quadro dei comandi si era accesa all'improvviso una luce, ma lui non se ne accorse fino a quando il suono rimbombante di un gong non lo fece balzar su dal seggiolino. La storia che aveva appena letto descriveva un identico colpo di gong...

E il significato era lo stesso. I suoi occhi lessero infine le parole che balenavano, rosse e accusatrici, sul pannello: RADIAZIONI A DODICI GRADI... ASTRONAVE AVVISTATA!

Le dita di Danny balzarono all'interruttore principale e ogni traccia di attività s'interruppe nella nave, eccettuata la pseudogravità, non appena il significato di quelle parole gli penetrò nel cervello. Non gli fu difficile scorgere l'altra nave dal grande oblò per l'osservazione diretta. La lunga scia di un razzo a conversione totale brillava là fuori, diretta, a quanto sembrava, verso la Terra — probabilmente era la Callisto!

Per un attimo fu certo che l'avessero individuato, ma l'improvviso guizzo che aveva fatto avvicinare l'altra nave e attivato l'allarme doveva essere stato soltanto un lieve aggiustamento di rotta, poiché la scia continuò indisturbata. Lui non sapeva nulla delle nuove navi, se fossero dotate o no di sistemi di avvistamento, ma a quanto pareva facevano a meno di cose del genere. La scia svanì in distanza, e le parole rosse che avevano segnalato il suo avvicinamento si spensero. Danny attese fino a quando, anche alla massima amplificazione, i segnalatori tacquero, e allora diede nuovamente energia. Il piccolo bagliore dei razzi a ioni sarebbe stato invisibile a una tale distanza.

Non parve accadere nient'altro. Si udì il soddisfatto ronfare del pilota automatico e lo sbuffo soffocato dell'energia da dietro, ma nessun campanello o altri suoni improvvisi. Lentamente il capo gli ricadde in avanti, sul quadro dei comandi, e il suo profondo respiro si mischiò ai ronzii e ai borbottii dei sistemi della nave, che continuò a svolgere il lavoro per cui era stata progettata. La sua rotta era completamente calcolata, fino alla vecchia pista di atterraggio, e non richiedeva nessuna ulteriore attenzione.

Ciò ebbe la sua chiara dimostrazione quando il lento rintocco d'una campana svegliò Danny, mentre sul pannello grandi parole luminose ammiccavano in sincronia con essa: DESTINAZIONE RAGGIUNTA! DESTINAZIONE RAGGIUNTA!

Danny spense ogni cosa, sfregandosi via il sonno dagli occhi, e guardò fuori. Una luce solare debole, ma calda, scendeva da un cielo bluastro nel quale piccole nubi galleggiavano non lontano dal suolo. Oltre il campo d'atterraggio sabbioso, chiaramente in disuso, dov'era la nave, c'erano il verde dell'erba e la selvaggia profusione di una foresta. L'orizzonte affondava improvviso, a ricordargli che quello era soltanto un piccolo mondo, anche se per ógni altra cosa avrebbe potuto essere la Terra. Più avanti, individuò una rimessa ovviamente abbandonata, e diede una leggera spinta ai razzi sostentatori, che gradualmente spinsero lo scafo fin dentro a quel riparo, nascondendolo alla vista di chiunque si trovasse in alto.

Poi Danny si diede da fare per aprire un portello. Quando finalmente questo si aprì, fu avvolto dalla fragranza della vegetazione in rigoglio, e lì intorno si udivano le strida e i richiami degli uccelli. Un coniglio balzò via dai suoi piedi, e senza troppa fretta, quando uscì incespicando, bramoso della luce del sole. Le erbacce e il sottobosco si erano ormai estesi fino a coprire in gran parte gli edifici intorno a lui. Esalò un sospiro: era stato troppo facile scoprire quel paradiso al primo tentativo fatto a caso.

Ma la vista degli edifici cacciò il dubbio. Circondata un tempo da. quello che era stato un pretenzioso giardino, quella'era stata una grande dimora di pietra, ma adesso cadeva in rovina. Accanto ad essa, un po' discosta, era stata costruita una casa più piccola, e a quanto pareva prelevando le rovine dell'altra. Quest'ultima, comunque, in buona parte era ancora intatta, anche se era in buona parte coperta d'edera, la quale mascherava metà della porta che si apri al tocco delle sue dita.

I radiatori, che traevano energia dal grande impianto nucleare che dava a quel piccolo mondo una perpetua rassomiglianza con la Terra, ardevano ancora lievemente. Ma dovunque c'era uno strato di polvere. L'arredamento, tuttavia, era in buone condizioni. Esaminò i mobili, riconoscendo in alcuni di essi certe somiglianze con dei pezzi visti al museo, creati dalla sua razza. Li studiò uno a uno... perché quella era la sua nuova casa, offertagli dalla sorte!

Sul tavolo, era deposto, come casualmente, un libro, sopra di esso era appoggiato un foglio di carta, coperto da quella che pareva l'incerta calligrafia di un bambino. La curiosità lo fece avvicinare, fino a quando riuscì a leggerlo, attraverso la polvere che vi era rimasta appiccicata:

 

Papà,

Charley Summer ha trovato il relitto di una nave di quegli esseri, ed è venuto da me. Vivremo benissimo su 13. Vieni su, se i tuoi getti ce la faranno, a trovare tuo genero.

 

Non c'era nessuna data, niente che indicasse se «Papà» era tornato o cosa fosse successo a tutti loro. Ma Danny lasciò nuovamente cadere con reverenza il messaggio sul tavolo, guardando fuori, sul campo di atterraggio, quasi aspettandosi di vedere la vecchia, logora nave che arrivava lenta, in quel breve crepuscolo che stava avvolgendo il minuscolo mondo. «Quegli esseri» potevano esser soltanto la nuova razza, dopo la guerra; e ciò significava che qui c'era stato l'ultimo avamposto della sua razza. Quel messaggio poteva esser vecchio di dieci anni, o di una mezza dozzina di secoli — ma la sua gente era stata là, continuando a combattere e riuscendo a sopravvivere, anche se avevano perduto la Terra. Se avevano potuto farlo loro, allora poteva farlo anche lui!

E per quanto potesse sembrare improbabile, forse c'erano altri di loro, là fuori, da qualche parte. Forse la vecchia razza sopravviveva ancora, malgrado i tempi duri e le avversità, e perfino l'homo intelligens.

Danny aveva gli occhi umidi, quando si allontanò dalla porta e dalla crescente oscurità esterna, per cominciare a ripulire la sua nuova casa. Se lassù c'era davvero qualcuno, li avrebbe trovati. Altrimenti...

Be', lui era pur sempre il membro d'una grande e coraggiosa razza che non avrebbe mai accettato la sconfitta fintanto che un solo uomo fosse vissuto. Questo, lui non l'avrebbe mai dimenticato.

 

Sulla Terra, Bryant Kenning annuì lentamente, rivolto alle persone davanti a lui, mentre metteva giù il comunicatore. I suoi occhi erano un po' tristi, malgrado il sorriso che gli illuminava il volto. «L'esploratore del Direttore è tornato. Lui ha scelto il «Danese». Povero ragazzo, aveva cominciato a temere che avessimo aspettato troppo a lungo, che non ce l'avrebbe mai fatta. Altri sei mesi, e sarebbe morto come un fiore non esposto al sole! Eppure, sono stato subito convinto che avrebbe funzionato, quando la signorina Larsen mi mostrò quella storia, con i suoi mitici paradisi sui planetoidi. Una storia piuttosto ben congegnata... se siete appassionati di opere pseudostoriche. Spero che quella da me preparata fosse alla sua altezza».

«Per imprecisione storica, completamente adeguata a lui». Ma il tono divertito nella voce del vecchio professore non si concretizzò in un sorriso.

«Be', comunque sia, il ragazzo ha creduto alle nostre menzogne ed è fuggito con l'astronave che gli avevamo costruito. Spero tanto che sia felice, almeno per un po'».

La signorina Larsen ripiegò le sue cose, e si preparò ad andarsene. «Povero ragazzo! Era così simpatico, e in un modo talmente patetico! Avrei voluto che quella ragazza, sulla quale abbiamo lavorato, fosse riuscita meglio. Forse, in tal caso, questo non sarebbe stato necessario. Mi accompagni a casa, Jack?»

I due uomini anziani seguirono con lo sguardo la signorina Larsen e Thorpe che uscivano, e la stanza si riempì di silenzio e di fumo di tabacco. Alla fine, Kenning scrollò le spalle e si voltò verso il professore.

«A quest'ora, avrà certamente trovato il foglio col messaggio. Mi chiedo se, dopotutto, quella sia stata una buona idea. Quando per la prima volta l'ho trovata in quella vecchia storia, ho subito pensato al rapporto preliminare di Jack sul numero 67. Ma adesso... non so. Nel migliore dei casi, è un fattore sconosciuto. Ad ogni modo, l'ho fatto per pura gentilezza».

«Gentilezza! Gentilezza, per ripagare con pochi milioni di crediti e poche migliaia di ore di lavoro — più una bugia qua e là — tutto quello che dobbiamo alla razza del ragazzo!»

La voce del professore era impregnata di stanchezza, mentre faceva cadere il contenuto della sua pipa nel portacenere; si alzò, e si diresse lentamente, con passi misurati, verso la finestra panoramica che si affacciava sul cielo tempestato di stelle. «A volte mi chiedo, Bryant», proseguì, «quanta gentilezza abbia trovato il neanderthal, quando l'ultimo della sua razza giunse alla morte. O se la razza che succederà alla nostra, quando l'oscurità scenderà su di noi, avrà da offrirci qualcosa di meglio di una simile gentilezza».

Il romanziere scosse dubbioso la testa, e nella stanza gravò nuovamente il silenzio, mentre ambedue guardavano fuori, il loro mondo e le stelle più oltre.

 

Diserzione

Desertion

di Clifford Simak

Astounding, novembre

 

Il quarto racconto della serie «City» («Census» fu pubblicato su Astounding in settembre), che ha per titolo «Desertion» (Diserzione), è il migliore di un gruppo di racconti tutti splendidi, scritto come una risposta diretta alle notizie di ciò che stava accadendo nei campi di sterminio nazisti in Europa.

Questa è una delle più grandi storie di tutta la letteratura, sulla difficoltà di compiere delle scelte, e il suo finale è uno dei più grandi in tutta la fantascienza.

 

(Chiaramente, il 1944 fu il grande anno di Simak. È la terza volta che devo parlare di lui in questo volume, dopo la sua totale assenza dai primi cinque della serie. Credo sia giunto il momento di confessare un mio piccolo peccato. Dal momento che i miei contatti con lui sono avvenuti quasi interamente per corrispondenza l'ho incontrato di persona soltanto tre volte in quarantadue anni di amicizia, e anche in queste rare occasioni, soltanto per poche orenon avevo mai avuto l'opportunità di pronunciare o sentire il suo cognome espresso in suoni. (Anche durante durante i nostri incontri, lo chiamavo Cliff, e basta). La conseguenza è stata che io, per qualche ragione, mi ero messo in testa che la «i» del suo cognome fosse lunga, e avevo sempre pensato a lui come a SIGH-mak. In effetti, la «i» del suo cognome è breve, ed esso va pronunciato SIM-ak. Questa, può sembrare una cosa di minima importanza, ma io mi irrito sempre quando sento qualcuno pronunciar male il mio cognome, per cui mi sento moralmente obbligato a prestare uguale attenzione ai cognomi degli altri. Per fortuna, Cliff possiede un temperamento così mite, che davvero non riesco a credere che possa sentirsi contrarialo nei miei confronti per una colpa così veniale. I.A.)

 

Quattro uomini, a due a due, erano entrati nell'ululante maelstrom che era Giove, e non erano tornati. Si erano incamminati fra quelle urlanti raffiche — o meglio, avevano proceduto a lunghi balzi, il ventre appiattito al suolo, i fianchi umidi di pioggia.

Poiché non vi erano andati in forma di uomini.

Adesso il quinto uomo era in piedi, davanti alla scrivania di Kent Fowler, Capo della Cupola N. 3 della Commissione Esplorativa Gioviana.

Sotto la scrivania di Fowler, il vecchio Towser si grattò via una pulce, poi si ridistese e riprese a dormire.

Fowler si accorse, con una fitta, che Harold Allen era giovane, troppo giovane. Aveva la naturale fiducia in se stesso dei giovani, la schiena dritta, gli occhi puntati dritti davanti a sé, il volto di qualcuno che non aveva mai conosciuto la paura.

E questo era strano. Poiché gli uomini delle cupole di Giove conoscevano la paura... la paura e l'umiltà. Era difficile per l'uomo conciliare la propria piccolezza con le possenti forze del mostruoso pianeta.

«Lei capisce», disse Fowler, «che non c'è bisogno che faccia questo. Lei capisce che non c'è bisogno che vada».

Era la formula rituale, ovviamente. Agli altri quattro erano state dette le stesse parole, ma erano andati. E questo, il quinto, Fowler lo sapeva, sarebbe andato anche lui.

Ma d'improvviso, sentì nascere in sé un barlume di speranza, che Allen non sarebbe andato.

«Quando parto?» chiese Allen.

C'era stato un tempo in cui Fowler avrebbe provato un intimo orgoglio per quella risposta, ma adesso non più. Per un attimo, corrugò la fronte.

«Entro un'ora», rispose.

Allen restò immobile, in attesa.

«Quattro altri uomini sono usciti e non sono tornati», proseguì Fowler. «Lei lo sa, naturalmente. Ma noi vogliamo che lei torni. Non vogliamo che lei vada a compiere qualche eroica spedizione di soccorso. La cosa principale, quella di gran lunga più importante, è che lei torni indietro, dimostrando in tal modo che l'uomo può vivere in una forma gioviana. Si spinga soltanto al primo picchetto della zona esplorata, poi torni indietro. Non corra nessun rischio. Non indaghi su niente. Torni indietro, e basta».

Allen annuì. «Tutto questo l'ho capito».

«La signorina Stanley farà funzionare il convertitore», disse ancora Fowler. «Non dovrà temer nulla, da quel lato. Gli altri uomini sono stati convertiti senza incidenti. Hanno lasciato il convertitore in condizioni, almeno all'apparenza, perfette. Lei sarà in mani assolutamente competenti. La signorina Stanley è, in tutto il sistema solare, la più qualificata operatrice in conversioni. Ha fatto esperienza sulla maggior parte degli altri pianeti. È per questo che si trova qui, con noi».

Allen fissò la donna e le sorrise, e Fowler colse qualcosa guizzare per un attimo sul volto della signorina Stanley — qualcosa che avrebbe potuto essere pietà, o rabbia... o semplicemente paura. Ma subito scomparve, e la donna sorrideva al giovanotto in piedi davanti alla scrivania. Sorridendo con quel suo modo compassato da maestrina, quasi come detestasse se stessa per dover sorridere così.

«Non vedo l'ora di esser convertito», disse Allen.

E per il modo in cui lo disse, sembrò uno scherzo, un grande, ironico scherzo.

Ma non era uno scherzo.

Era una faccenda seria, mortalmente seria. Da quegli esperimenti, Fowler lo sapeva, dipendeva il destino degli uomini su Giove. Se avessero avuto successo, le risorse del gigantesco pianeta sarebbero state a disposizione degli uomini. L'uomo avrebbe preso possesso di Giove come aveva fatto con i pianeti più piccoli. Ma se avessero fallito...

Se avessero fallito, l'uomo avrebbe continuato ad essere legato e inceppato dalla tremenda pressione atmosferica, dall'enorme forza di gravità, dalla chimica tremendamente aliena del pianeta. Avrebbe continuato a restar chiuso dentro le cupole, incapace di porre effettivamente il piede sul pianeta, incapace di vederlo realmente coi propri occhi senza strumenti che li aiutassero, costretto a lavorare con complicati utensili meccanici, o con i robot, che erano anch'essi impacciati.

Poiché l'uomo, senza protezione e nella sua forma naturale, sarebbe stato annichilito in un attimo dalla terrificante pressione atmosferica di Giove, tonnellate e tonnellate per centimetro quadrato, una pressione che al confronto faceva sembrar vuoto perfino il fondo degli oceani della Terra.

Perfino le più robuste leghe metalliche che l'uomo era riuscito a concepire non potevano resistere a una simile pressione, alla pressione e alle piogge alcaline che spazzavano eternamente il pianeta. Diventavano friabili e scagliose, e si sbriciolavano come creta, oppure si dissolvevano e scorrevano via sotto forma di sali d'ammoniaca. Solo aumentando artificialmente la tensione elettronica interna, questi metalli acquistavano una durezza e una robustezza sufficienti a sopportare il peso di migliaia di miglia di quei turbinosi gas soffocanti che costituivano l'atmosfera. E anche dopo questo trattamento, ogni cosa doveva esser rivestita d'una corazza di quarzo per tener lontana la pioggia — quella pioggia amarissima che era ammoniaca liquida.

Fowler stava ascoltando il rombo sordo dei motori, nel sotterraneo della cupola. Motori che pulsavano ininterrotti, senza che la cupola potesse, anche per un solo attimo, restar priva del loro vibrare. Dovevano funzionare e funzionare e funzionare, poiché, se si fossero fermati, l'energia che scorreva nelle pareti metalliche della cupola si sarebbe interrotta, la tensione elettronica si sarebbe allentata, e sarebbe stata, in pochi attimi, la fine di ogni cosa.

Towser si riscosse, sotto la scrivania di Fowler, e si grattò un'altra pulce, la sua zampa tambureggiò con forza sul pavimento.

«C'è altro?» chiese Allen.

Fowler scosse il capo. «Forse c'è qualcosa che vorrebbe fare», rispose. «Forse...»

Stava per dire, «... vorrebbe scrivere una lettera», ma fu lieto d'essersi fermato in tempo.

Allen lanciò un'occhiata al suo orologio. «Arriverò là in tempo», disse. Si girò e si avviò verso la porta.

Fowler sapeva che la signorina Stanley lo stava guardando, e non osò voltarsi per non incontrare i suoi occhi. Armeggiò con un fascio di fogli sulla scrivania.

«Per quanto tempo ha intenzione di continuare?» chiese la signorina Stanley, e ogni parola era un morso rabbioso.

Allora, Fowler si girò sulla sedia e la fronteggiò. Le labbra della donna erano tese in una linea dritta e sottile, i capelli pettinati indietro sulla fronte più tirati che mai, dando alla sua faccia quella singolare caratteristica, quasi stupefacente, che la faceva assomigliare a una maschera della morte.

Fowler cercò di dare alla sua voce un tono calmo e imparziale. «Fintanto che ce ne sarà bisogno», disse. «Fintanto che ci sarà ancora qualche speranza».

«Continuerà a condannarli a morte», disse la donna. «Continuerà a farli uscir fuori, faccia a faccia con Giove. Continuerà a starsene seduto qua dentro, comodo e al sicuro, mandandoli fuori a morire».

«Non c'è posto per il sentimentalismo, signorina Stanley», replicò Fowler, cercando di tener fuori la rabbia dalla sua voce. «Sa bene quanto me perché lo stiamo facendo. Lei sa benissimo che l'uomo, nella sua propria forma, non può assolutamente affrontare Giove. L'unica soluzione, è trasformare gli uomini in un tipo di creature che possano affrontarlo. L'abbiamo fatto su altri pianeti.

«Se pochi uomini muoiono, ma alla fine otteniamo successo, il prezzo è piccolo. Per tanti secoli gli uomini hanno gettato via la loro vita per le più sciocche, assurde ragioni. Perché dovremmo esitare, allora, se vi sarà qualche morto, in cambio di un'impresa così gigantesca?»

La signorina Stanley sedeva dritta e rigida, le mani incrociate in grembo, le luci che giocavano tra i suoi capelli che si andavano sbiancando, e Fowler, guardandola, cercò d'immaginare cosa potesse sentire, cosa potesse pensare. Non che avesse paura di lei, ma non si sentiva del tutto a suo agio in sua presenza. Quei penetranti occhi azzurri vedevano troppo, le sue mani parevano troppo competenti. Avrebbe potuto benissimo essere la zia di qualcuno, seduta su una sedia a dondolo coi suoi ferri da calza, ma non lo era. Era la più abile operatrice delle unità di conversione in tutto il sistema solare, e non le piaceva il modo in cui lui conduceva le cose.

«C'è qualcosa che non funziona, signor Fowler», dichiarò la donna.

«Precisamente», ammise Fowler. «È per questo che mando il giovane Allen là fuori da solo. Potrà forse scoprire di che cosa si tratta».

«E se non ci riuscisse?»

«Manderò fuori qualcun altro».

La donna si alzò lentamente in piedi, si diresse verso la porta, poi sembrò ripensarci e si fermò davanti alla scrivania.

Un giorno», disse, «lei sarà un grand'uomo. Non si lascerà certo sfuggire l'occasione di diventarlo. Questa è la sua occasione. Lo ha saputo fin dal momento in cui questa cupola è stata eretta. Se gli esperimenti avranno infine successo, lei salirà di un gradino o due nella scala gerarchica. Non importa quanti uomini possano esser morti, lei salirà di un gradino o due».

«Signorina Stanley», replicò Fowler, con voce brusca, «il giovane Allen sarà pronto assai presto. Vuole accertarsi che la sua macchina...»

«La mia macchina», disse la donna, gelida, «non ha nessuna colpa. Opera esattamente in base ai dati stabiliti dai biologi».

Fowler restò seduto, ingobbito, alla sua scrivania, mentre i passi della signorina Stanley si allontanavano lungo il corridoio.

Ciò che la donna aveva detto era vero, naturalmente. I biologi avevano stabilito precise coordinate. Ma i biologi potevano sbagliarsi. Bastava un'infinitesima differenza, un niente, e il convertitore avrebbe mandato fuori qualcosa che non avrebbe dovuto. Un mutante che poteva crollare per la tensione, impazzire, reagire nel modo più sbagliato, assurdo, davanti a ostacoli imprevisti.

Poiché l'uomo non sapeva ciò che succedeva là fuori. Conosceva soltanto le indicazioni degli strumenti. E quegli scarsi, frammentari campioni d'informazione forniti dagli strumenti non potevano valere granché, poiché Giove era molto grande, e le cupole molto piccole.

Perfino il lavoro dei biologi per ottenere qualche informazione più approfondita sui Saltanti, con ogni probabilità la forma di vita gioviana più evoluta, aveva richiesto più di tre anni di lunghe e faticose ricerche, e poi altri due anni di controlli per esserne sicuri. Un lavoro che sulla Terra avrebbe richiesto, sì e no, una settimana o due. Ma un lavoro che, in questo caso, non poteva in nessun modo esser compiuto sulla Terra, poiché non era possibile portare sulla Terra una forma di vita gioviana. La pressione esistente su Giove non poteva esser riprodotta fuori del pianeta, e alla pressione e alla temperatura della Terra, i Saltanti sarebbero semplicemente scomparsi in uno sbuffo di gas.

Eppure era un lavoro che bisognava fare, se l'uomo voleva sperare di potersi aggirare, un giorno, su Giove, nella forma fisica dei Saltanti. Giacché, prima di poter cambiare un uomo, grazie al convertitore, in un'altra forma di vita, ogni più piccola caratteristica fisica di quella forma di vita doveva esser conosciuta in ogni particolare senza nessuna possibilità di errore.

 

Allen non tornò.

I trattori, pur passando al setaccio il terreno circostante, non trovarono nessuna traccia di lui, a meno che la creatura furtiva che uno dei conducenti riferì di aver visto non fosse il terrestre mancante, in forma di Saltante.

I biologi si trincerarono dietro una serie di sorrisi accademici, quando Fowler suggerì che i dati da essi forniti al convertitore potevano essere sbagliati. Con molto puntiglio e diligenza gli fecero osservare che i dati funzionavano. Quando un uomo veniva posto nel convertitore, e veniva abbassato l'interruttore, l'uomo diventava un Saltante. Lasciava la macchina e si allontanava, fuori dalla loro vista, in mezzo a quell'innominabile brodaglia che era l'atmosfera gioviana.

Qualche minuscolo scarto, insisté Fowler, qualche impercettibile deviazione da ciò che avrebbe dovuto essere un Saltante, qualche microscopico difetto. Se ci fosse stato, dichiararono i biologi, ci sarebbero voluti anni per scoprirlo.

E Fowler sapeva che avevano ragione.

Così, adesso erano cinque gli uomini scomparsi, non più quattro, e Harold Allen era uscito là fuori, sulla superficie di Giove, per niente. Era come se non ci fosse mai andato, per ciò che riguardava la raccolta d'informazioni.

Fowler allungò la mano attraverso la scrivania e prese su la cartella con l'elenco del personale, un sottile fascio di fogli tenuti insieme da un fermaglio. Avrebbe dato chissà cosa per non farlo, ma doveva. In qualche modo, la causa di quelle inspiegabili sparizioni doveva esser trovata. E non c'era altro modo di farlo se non mandar fuori altri uomini.

Ristette per un attimo, ascoltando l'ululato del vento sopra la cupola, le raffiche rombanti che spazzavano l'intero pianeta con la loro collera.

C'era forse qualche minaccia là fuori? si chiese. Qualche pericolo che non conoscevano? Qualcosa in agguato che ingoiava i Saltanti, senza fare alcuna distinzione fra quelli autentici, e i Saltanti che erano uomini? Per chi li ingoiava, naturalmente, non faceva nessuna differenza.

Oppure, c'era stato un errore di partenza, nello scegliere i Saltanti come il tipo di vita più adatto a sopravvivere sulla superficie del pianeta? Il fatto che i Saltanti mostrassero un'indubbia intelligenza, lo sapeva, era stato l'elemento decisivo in quella scelta, poiché, se la creatura che l'uomo diventava non avesse avuto l'intelligenza, l'uomo non sarebbe riuscito a conservare la propria, in quella forma.

I biologi avevano forse permesso che quel fattore pesasse troppo, usandolo per compensare qualche altro fattore che avrebbe potuto rivelarsi insoddisfacente, o addirittura catastrofico? Non gli parve probabile. Per quanto ostinati potessero essere, i biologi conoscevano il loro lavoro.

Oppure l'intera impresa era impossibile, condannata al fallimento prima ancora di cominciare? La conversione in altre forme di vita aveva funzionato su altri pianeti, ma ciò non significava necessariamente che dovesse funzionare anche su Giove.

Forse l'intelligenza umana non riusciva a funzionare efficacemente attraverso l'apparato sensoriale fornito da una forma gioviana. Forse i Saltanti erano alieni al punto che non c'era alcun terreno comune perché l'esperienza umana e il concetto gioviano dell'intelligenza s'incontrassero e operassero insieme.

Oppure, l'errore poteva nascondersi dentro l'uso medesimo, essere insito nella razza umana. Qualche aberrazione mentale che, associandosi con qualcosa che incontravano là fuori, non li lasciava più tornare indietro. Anche se poteva anche non trattarsi di aberrazioni, non dal punto di vista umano. Forse soltanto un tipico tratto mentale umano, accettato come perfettamente normale sulla Terra, ma talmente in contrasto con il modo di esistere gioviano, da poter distruggere ogni intelligenza e ogni equilibrio mentale in un uomo.

 

Un ticchettio raspante si udì nel corridoio. Fowler tese l'orecchio ed ebbe un pallido sorriso. Era Towser che ritornava dalla cucina, dove era andato a trovare il suo amico, il cuoco.

Towser entrò nella stanza, con un osso. Dimenò la coda, fissando Fowler, e si accucciò accanto alla sua scrivania, con l'osso tra le zampe. Per un lungo attimo i suoi vecchi occhi catarrosi contemplarono il padrone, e Fowler abbassò una mano a carezzare un ispido orecchio.

«Mi vuoi ancora bene, Towser?» chiese Fowler, e la coda di Towser tambureggiò sul pavimento.

«Tu sei il solo», continuò Fowler. «In tutta la cupola mi maledicono. Assassino, mi chiamano. E non è che abbiano tutti i torti...»

Si raddrizzò e tornò a voltarsi verso la scrivania. Allungò una mano e prese nuovamente l'elenco del personale.

Bennett? Bennett aveva una ragazza che lo aspettava sulla Terra.

Andrews? Andrews progettava di tornare all'Istituto Tecnico di Marte non appena avesse guadagnato abbastanza da viverci per un anno.

Olson? Olson si stava avvicinando all'età della pensione. Continuava a dire a tutti che si sarebbe messo a coltivare rose.

Lentamente, Fowler tornò a deporre la cartella coi fogli sulla scrivania.

Mandava a morte gli uomini. La signorina Stanley aveva detto questo, le labbra pallide e tirate che si muovevano appena sul suo volto impietrito. Mandava gli uomini fuori a morire, mentre lui, Fowler, se ne stava seduto là dentro, comodo e sicuro.

Senza dubbio, dovevano dirlo tutti, là dentro la cupola, specialmente dopo che Allen non era più tornato. Non gliel'avrebbero mai detto in faccia, naturalmente. Neppure quell'uomo, o quegli uomini, che avrebbe chiamato davanti alla sua scrivania per dir loro che sarebbero stati i prossimi ad uscire, gliel'avrebbero detto.

Avrebbero detto soltanto: «Quando partiamo?» Perché quella era la formula. Ma lui l'avrebbe letto nei loro occhi.

Raccolse di nuovo la cartella. Bennett, Andrews, Olson. Ce n'erano altri, ma non serviva continuare.

Kent Fowler sapeva che non poteva farlo, non poteva guardarli in faccia, non avrebbe potuto mandar fuori altri uomini a morire.

Si sporse in avanti e fece scattare la levetta dell'intercom.

«Sì, signor Fowler?»

«La signorina Stanley, per favore».

Attese di poter parlare con la signorina Stanley ascoltando Towser che rosicchiava l'osso con scarso impegno. I denti di Towser andavano peggiorando ogni giorno.

«Qui Stanley», disse la voce della signorina Stanley.

«Volevo giusto dirle, signorina Stanley, di'prepararsi per altri due».

«Non ha paura», chiese la signorina Stanley, «di esaurirli tutti? Mandandoli fuori uno per volta, dureranno più a lungo, e lei avrà il doppio della soddisfazione».

«Uno dei due», precisò Fowler, «sarà un cane».

«Un cane!»

«Sì, Towser».

Sentì l'immediata, gelida rabbia nella voce sibilante della donna: «Il suo cane! Le è rimasto al fianco tutti questi anni...»

«È questo il punto», l'interruppe Fowler. «Towser sarebbe molto infelice se lo lasciassi qui».

Non era il Giove che aveva conosciuto attraverso il televisore. Si era aspettato che fosse diverso, ma non così. Si era aspettato un inferno di pioggia ammoniacale e fumi fetidi, e l'assordante rimbombo dell'eterna tempesta. Si era aspettato vortici di nubi e di nebbia e il ringhiante guizzare di mostruose saette.

Non si era aspettato che quello sferzante rovescio si riducesse a una foschia purpurea che ondeggiava, in una prospettiva d'ombre fuggitive, su una prateria scarlatta. Non avrebbe mai potuto immaginare che quelle folgori serpeggianti sarebbero state vampe e bagliori di pura estasi, guizzanti in un cielo dipinto.

Mentre aspettava Towser, Fowler fletté i muscoli del suo corpo, sorpreso dalla fluida, agile forza che vi trovò. Non un brutto corpo, decise, e pensò, stranamente corrucciato, alla pietà che aveva sempre provato per i Saltanti, quando li aveva intravisti allo schermo televisivo.

Giacché era stato difficile immaginare un organismo vivente basato sull'ammoniaca e l'idrogeno invece che sull'acqua e l'ossigeno, difficile credere che una simile forma potesse provare lo stesso fervore, la stessa, penetrante, ansia di vita dell'umanità. Difficile concepire perfino l'esistenza di una vita, là fuori, in quel denso e sciropposo maelstrom che era Giove, non sapendo che, ovviamente, attraverso gli occhi dei gioviani non era affatto un denso e sciropposo maelstrom.

Il vento lo sfiorò con quelle che gli parvero dita gentili, e ricordò con un sussulto che, secondo i criteri terrestri, quel vento era una bufera, un ciclone ululante a duecento miglia all'ora, carico di gas micidiali.

Piacevoli profumi avvolsero il suo corpo. Eppure non erano affatto profumi, poiché, a comunicarglieli, non era il senso dell'olfatto come lui lo ricordava. Era come se tutto il suo essere si compenetrasse dell'essenza di lavanda. Ma era qualcosa, in realtà, per cui non c'erano parole, senza dubbio il primo d'una lunga serie di enigmi di terminologia. Sapeva che le parole da lui conosciute, i simboli del pensiero che gli erano serviti come terrestre, non gli sarebbero stati di nessuna utilità come gioviano.

Il portello sul fianco della cupola si aprì, e Towser ne uscì saltando e rimbalzando... almeno, lui pensò che doveva essere Towser. Fece per chiamare il cane, la sua mente formò le parole che aveva intenzione di dire... ma non poté dirle. Non c'era alcun modo di dirle. Non aveva niente con cui dirle.

Per un attimo, la sua mente fu colta da un viscido, vorticoso terrore, una paura cieca che esplose in una serie di sbuffi di panico nel suo cervello.

Come facevano a parlare, a comunicare, i gioviani? Come...

D'improvviso, fu conscio di Towser, intensamente conscio dell'ardente amicizia, del goffo, travolgente trasporto dell'irsuto animale che l'aveva seguito, dalla Terra, su tanti pianeti. Come se l'entità che era Towser si fosse protesa verso di lui e per un attimo si fosse messa nel suo cervello.

E dalla confusa sensazione di benvenuto presero forma delle parole:

«Ciao, amico».

In realtà non erano parole, ma erano meglio delle parole. Quella sorta di pensieri simbolici che gli venivano trasmessi avevano sfumature di significato impossibili alle parole.

«Ciao, Towser», rispose.

«Mi sento bene», disse Towser. «Come se fossi un cucciolo. Negli ultimi tempi, mi sono proprio sentito andare a pezzi. Le giunture sempre più rigide, e i denti quasi del tutto consumati, ridotti a niente. Difficile rosicchiare un osso con simili denti. Inoltre, le pulci mi hanno fatto passare l'inferno. Una volta, non gli prestavo molta attenzione. Un paio di pulci in più o in meno non significavano molto quand'ero giovane».

«Ma... ma...» I pensieri di Fowler fremettero sbalorditi. «Tu mi stai parlando!

«Certo», annuì Towser. «Io ti ho sempre parlato, ma tu non sei mai riuscito a capirmi. Ti dicevo tante cose, ma tu...»

«Qualche volta riuscivo a capirti».

«Sì», annuì Towser, «Tu capivi quando volevo mangiare e bere, o quando volevo uscire, ma questo è tutto».

«Mi spiace», fece Fowler.

«Oh, non pensarci più», rispose Towser. «Facciamo una corsa fino a quel dirupo».

Per la prima volta Fowler si avvide di quella formazione rocciosa, che gli parve distante molte miglia, ma con una strana bellezza cristallina che scintillava all'ombra delle nuvole iridescenti.

Fowler esitò: «È molto lontano...»

«Ah, su, vieni», lo sollecitò Towser, e mentre diceva questo, si lanciò di corsa verso il dirupo.

Fowler lo seguì, saggiando le sue nuove gambe, mettendo alla prova quel suo nuovo corpo, dubbioso, sulle prime, stupefatto pochi attimi più tardi, lanciandosi poi in una corsa sfrenata, fatta d'una gioia pura che era un tutt'uno col prato dalle vivide sfumature rosse e purpuree, coi vapori ondeggianti suscitati dalla pioggia sul suolo.

Mentre correva, divenne conscio d'una musica... una musica che gl'investiva il corpo, che invadeva il suo essere, che l'innalzava su rapide impalpabili ali d'argento. Una musica come di campane, quale soltanto una piccola chiesa tra verdi colline avrebbe potuto innalzare nella limpida aria di primavera.

Man mano il dirupo si avvicinava, la musica crebbe e riempì l'universo di magici suoni. Si avvide che usciva da una cascata che zampillava giù dalla scintillante parete rocciosa.

Soltanto che lui, subito, si rese conto che non era una cascata d'acqua, bensì di ammoniaca, e il dirupo era bianco perché formato da ossigeno solidificato.

Si arrestò, con una lunga scivolata, accanto a Towser, là dove la cascata si frangeva in uno smagliante arcobaleno dai mille colori. Ed erano proprio mille colori, uno diverso dall'altro, non tante sfumature di pochi colori, come le avrebbe viste un occhio umano. Poiché quei suoi nuovi occhi avevano un potere analitico così netto e preciso da sbalordire.

«La musica», disse Towser.

«Sì, cosa...?»

«La musica», ripeté Towser, «sono le vibrazioni di quel liquido che cade giù».

«Ma, Towser, tu non sai niente delle vibrazioni».

«Sì, invece», lo smentì Towser. «Mi è venuto in mente, così, all'improvviso».

«Ti è appena venuto in mente!» Fowler digerì l'informazione con uno sforzo. E all'improvviso, nel suo cervello fiorì, letteralmente, una formula... la formula d'un procedimento che avrebbe consentito ai metalli di resistere alla pressione di Giove.

Fissò stupefatto la cascata, e subito la sua mente afferrò tutti quei colori e li schierò nell'ordine esatto dello spettro. Così. Cogliendolo di sorpresa. Poiché lui non sapeva nulla di colori o di metalli.

«Towser!» gridò. «Towser, ci sta accadendo qualcosa!»

«Sì», rispose Towser, «lo so».

«È il nostro cervello», proseguì Fowler. «Lo stiamo usando... lo stiamo usando tutto, fino all'angolo più nascosto. Usandolo per capire cose che avremmo dovuto sapere da sempre. Forse il cervello delle creature, sulla Terra, è per sua natura lento e confuso. Forse noi siamo gli idioti dell'universo. Forse siamo talmente privi di elasticità e profondità, che siamo costretti a far sempre le cose nel modo più difficile».

E, in quella nuova acutezza di pensiero, seppe che non si sarebbe trattato soltanto di riconoscere la sequenza spettrale dei colori smaglianti dellta cascata, o la formula che avrebbe fatto resistere i metalli alla pressione di Giove; stavano affiorando ai suoi sensi e alla sua mente molte altre cose, ancora non chiare. Un vago bisbiglio che accennava a cose più grandi, a misteri al di là dei limiti del pensiero umano, al di là dei confini, perfino, dell'immaginazione umana. Misteri, fatti, al lume di una logica nuova, ben più razionale. E tutte cose che un cervello umano avrebbe già dovuto conoscere, se avesse usato tutte le sue facoltà ragionative.

«Siamo ancora in gran parte terrestri», commentò Fowler. «Cominciamo soltanto adesso a capire delle cose che dovremmo conoscere... alcune delle cose che, in quanto esseri umani, ci sono rimaste sempre celate. Perché i nostri corpi umani erano ben miseri corpi, troppo imperfetti per pensare con la dovuta acutezza, e sprovvisti di alcuni sensi essenziali alla vera conoscenza».

Si voltò a guardare la cupola dietro di loro, una minuscola cosa nera, rimpicciolita dalla distanza.

Là dentro c'erano uomini che non potevano vedere la straordinaria bellezza di Giove. Uomini convinti che la superficie del pianeta fosse un orribile mondo avvolto da turbinose nubi soffocanti e sferzato da piogge corrosive. Occhi umani, incapaci di vedere. Poveri occhi. Occhi che non potevano contemplare la bellezza di quelle nubi, che non potevano cogliere tanti splendori attraverso le tempeste. Corpi che non potevano provare l'eccitazione di quella musica ineffabile che nasceva dal frangersi della cascata.

Uomini che procedevano nella loro angosciosa solitudine, pronunciando parole con la loro bocca allo stesso modo in cui i giovani esploratori trasmettevano segnali agitando braccia e fazzoletti, incapaci di protendersi fuori e toccarsi l'un l'altro con le rispettive menti, allo stesso modo in cui, adesso, lui poteva spingersi a toccare la mente di Towser. Esclusi per sempre da un contatto davvero profondo, intimo, personale, con le altre creature viventi.

Lui, Fowler, si era aspettato lì, sulla superficie di Giove, un terrore ispirato dalla sua alienità, si era aspettato di arretrare impaurito davanti alla minaccia di cose sconosciute, si era preparato, con tremendo sforzo di volontà, a vincere la repulsione per un ambiente il più possibile estraneo a quello terrestre.

Ma aveva trovato invece la cosa più grande che l'uomo avesse mai conosciuto. Un corpo più agile e sicuro. Un'invincibile gioia di vivere. Una mente più acuta. E un mondo d'una bellezza che neppure i più grandi sognatori della Terra sarebbero mai riusciti a concepire.

«Andiamo», lo sollecitò Towser.

«Dove vuoi andare?»

«Dovunque sia», disse Towser. «Su, andiamo, non importa dove. Ho una sensazione... una sensazione...»

«Sì, lo so», annuì Fowler.

Giacché anche lui aveva quella sensazione. La sensazione di un grande destino. Un certo senso di grandezza. La consapevolezza che in quel luogo, oltre quegli orizzonti, li aspettavano avventure e cose più grandi delle avventure.

Anche i cinque che erano usciti su Giove prima di loro l'avevano sentito... Avevano sentito lo stimolo irresistibile di andare a vedere, la travolgente sensazione che, qui, avrebbero conosciuto un'esistenza di profondo appagamento e di saggezza.

E seppe, allora, che proprio per questo non erano tornati.

«Io non tornerò indietro», disse Towser.

«Ma non possiamo tradirli così...» azzardò Fowler. «Non...»

Fece un passo o due, tornando indietro in direzione della cupola, poi si fermò.

Tornare alla cupola... Tornare a quel corpo dolorante, carico di veleno, che aveva appena lasciato. Non gli era parso dolorante prima, ma adesso sapeva che era pieno di sofferenze grandi e piccole...

Tornare a quel cervello confuso, a quel pensare torpido, ottuso. Tornare a quell'agitar di bocche per formulare goffi segnali sonori, per farsi capire dagli altri. Tornare a occhi che ora gli avrebbero fatto rimpiangere d'esser cieco. Tornare allo squallore, allo strisciare, all'ignoranza.

«Forse un giorno», borbottò tra sé.

«Abbiamo molto da fare e molto da vedere», disse Towser. «Abbiamo molto da imparare. Troveremo cose...»

Sì, avrebbero potuto trovare tante cose. Civiltà, per esempio. Civiltà che avrebbero fatto apparire quella degli uomini, al confronto, insignificante. Avrebbero trovato la bellezza e, cosa più importante, la comprensione di quella bellezza. E un'amicizia, una fratellanza, che nessuno aveva mai conosciuto prima.

E vita. Una vita rapida, gioiosa, dopo quella che, ora, al confronto, appariva un'esistenza torpida, addormentata.

«Non posso tornare indietro», disse Towser.

«Neppure io», disse Fowler.

«Mi ritrasformerebbero in un cane», disse Towser.

«Ed io», disse Fowler, «verrei ritrasformato in un uomo».

 

Quando il ramoscello si spezza

When the Bough Breaks

di «Lewis Padgett» [Henry Kuttner e C.L. Moore]

Astounding, novembre

 

Henry Kuttner e C.L. Moore continuarono a sfornare opere di qualità, conservando la brillante vena con cui avevano iniziato gli anni quaranta (vedi il quarto e il quinto volume di questa serie) anche nel 1944, racconti come «Housing Problem» (Charm, ottobre), «Trophy» (Thrilling Wonder Storie, inverno), e «The Children's Hour» (Astounding, marzo). Ma la loro collaborazione raggiunse il culmine con «When the Bough Breaks» (Quando il ramoscello si spezza), una storia intensa ed efficace, un po' simile al loro «Mimsy were the Borogoves» dell'anno precedente. Si è spesso affermato che la narrativa giunge alla grandezza quando riesce a catturare la natura tragica della vita... Se è così, questo racconto è grande in ogni sua singola parola.

 

(Spesso mi vien chiesto se un'istruzione scientifica è essenziale per chi scrive fantascienza. Si potrebbe pensare che davvero lo sia, ma non è così, dal momento che eccellente fantascienza è stata scritta da autori ai quali è mancata una simile istruzione. Posso citare come esempi Fredric Brown fra gli scrittori della prima generazione, e Harlan Ellison i cui racconti cominceranno a comparire a tempo debito, con l'allungarsi di questa serie di antologiefra quelli della nuova. Mi sembra che Henry Kuttner e C.L. Moore siano ulteriori, validi esempi. Intendiamoci, ciò non significa che siano scientificamente ignoranti (anche se questo, in verità, non li squalificherebbe affatto). Vuol dire, tuttavia, che la scienza di cui avevano bisogno se la sono imparata da soli, e hanno saputo benissimo mantenere in quantità minime il loro fabbisogno, ottenendo, malgrado ciò, degli splendidi risultati. I.A.)